12 settembre 2016

Omettere per dare senso

 
Conversazione con Marco Bazzini, curatore della mostra milanese di Emlio Isgrò che ha al centro la cancellatura. E che si articola in tre sedi

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Milano rende omaggio a Emilio Isgrò (classe 1937), sua città d’adozione, con una imperdibile mostra monografica ospitata in tre sedi: a Palazzo Reale che presenta oltre duecento opere, nel caveau delle Gallerie Italia con L’occhio di Alessandro Manzoni, cancellatura ex novo di una copia del ritratto dello scrittore di Francesco Hayez, e infine nella Casa di Manzonicon trentacinque libri dei “I promessi sposi” (l’edizione Quarantana del 1840-1842). Curata da Marco Bazzini, l’esposizione nasce dall’idea dell’Archivio di Emilio Isgrò e, tra una sede e l’altra, ripercorre cinquant’anni della vita dell’artista, oltre la cancellatura – una barra prima nera e dagli anni Ottanta bianca – sopra i caratteri stampati di testi simbolici della cultura universale (promossa dal Comune con Electa e Intesa San Paolo, Centro Nazionale Studi Manzoniani, fino al 25 settembre). 
Isgrò ha dichiarato che “nella virgola c’è il sale della vita”, in cui la punteggiatura nell’epoca digitale è diventata un accessorio e la pausa è una sconosciuta. Dietro la cancellatura, il non detto emerge con una indecifrabile, affascinante griglia pittorica intorno all’inganno percettivo. Provocano cortocircuiti visivi e mentali le sue opere enigmatiche che appaiono come ipertesti, in cui la scrittura messa in relazione con l’immagine sottende un’arte generale del segno, anche nel caso in cui al testo scritto si sostituisce un’immagine. Nel corso del tempo, dopo aver cancellato anche il debito pubblico (2011), seppure metaforicamente, l’autore ha rinnovato la sua ricerca, introducendo anche installazioni per confrontarsi con temi etici della globalizzazione, e rimettendo al centro del dibattito la cultura mediterranea. Chi non ricorda il Seme dell’Altissimo in marmo bianco realizzato per l’Expo del 2015 che presto vedremo al parco Sempione? Ne parliamo con il curatore Marco Bazzini. 
Emilio Isgrò, I promessi sposi non erano due, 1967
Nel 1964, quando alla Biennale di Venezia trionfa la Pop Art, Emilio Isgrò inizia le sue cancellature, il suo marchio distintivo. Che significato ha per l’ex giornalista e scrittore, poi artista, questo atto di negazione e ricreazione del segno? Che cosa vuol dire cancellare?
«Ormai la cancellatura è diventata il linguaggio di Isgrò e il suo modo di relazionarsi con la realtà. Gli appartiene come la sua voce e come il taglio appartiene a Fontana. Credo che le mostre di Milano lo dimostrino ampiamente. Fondamentalmente omettere, cancellare significa rivelare altri significati».
Quando e perché ha incominciato a studiare e a valorizzare il lavoro di Isgrò?
«Ho visto per la prima volta le sue poesie visive e cancellature durante un seminario sulla neoavaguardia all’Università. Era la metà degli anni Ottanta. Ne rimasi affascinato per l’ironia e la profondità. Solo negli anni Duemila ho conosciuto Isgrò di persona e nel 2007, quando fui nominato direttore al Centro Pecci, decisi di presentare una sua personale curandola con Achille Bonito Oliva. Cosa che avvenne all’inizio dell’anno successivo. Fino a quel momento nessun museo aveva osato tanto, eppure il suo lavoro è attualissimo. Uno dei grandi maestri dell’arte italiana e non solo stava passando sotto il silenzio delle istituzioni. Non potevo fare scelta migliore».
Emilio Isgrò, vista della mostra, Palazzo Reale Milano
Qual è il rapporto tra Emilio Isgrò e Milano?
«Carico di un importante bagaglio letterario, Isgrò arriva a Milano nel 1956 anno in cui Schwarz pubblica il suo primo libro di poesie. Ma è in questa città, uno dei principali luoghi europei della sperimentazione dell’arte, che prende coscienza del suo essere artista. A Milano presenta le sue mostre più note, come il “Cristo cancellatore” o “L’Enciclopedia Treccani” cancellata. Ma leggendo le cronache e le recensioni delle sue molte mostre ho trovato che alcune volte viene definito “artista milanese” e non “siciliano”. Credo che l’identità si ridefinisca nei luoghi che abitiamo, e, comunque, se si è prodotta un’ambiguità vuol dire che le sono state offerte quelle possibilità per prodursi».
Come nasce la retrospettiva di Emilio Isgrò con oltre duecento opere suddivisa in tre atti come omaggio ai 50 anni della sua carriera artistica?
«Da un certo punto di vista era un atto dovuto nei confronti di un artista che in questa città, sempre aperta all’innovazione, ha prodotto una delle ricerche artistiche più originali dopo quelle di Lucio Fontana e Piero Manzoni. Di ciò, credo, sono stati convinti anche l’Assessore Filippo Del Corno, che già nel precedente mandato aveva creduto e lanciato quest’operazione, e il Direttore di Palazzo Reale Domenico Piraina. La collezione del Novecento di Gallerie d’Italia custodisce un importante nucleo di opere di Isgrò, ora presente in mostra a Palazzo Reale. Quindi, senza alcuna indecisione, è arrivato anche il sostegno di Intesa Sanpaolo e soprattutto la grande collaborazione del suo responsabile delle attività culturali Michele Coppola e di tutto il suo staff. Per quanto riguarda l’impegno di Electa, credo sia stata decisiva ancora una volta la determinazione di stare vicini ai grandi protagonisti dell’arte che da sempre caratterizza il suo operare». 

Emilio Isgrò, L’occhio di Alessandro Manzoni


Il percorso espositivo della mostra comincia a Palazzo Reale e non segue un ordine cronologico: secondo lei quali sono i cicli di opere più significativi che rappresentano la poetica germinativa dell’autore?
«In mostra ho cercato di suggerire alcuni dei possibili passaggi tra i diversi modi in cui la cancellatura nel tempo è stata realizzata da Isgrò. Un modo per legare variazioni solo apparentemente distanti che sono, invece, legate da una forte propensione poetica. Ormai da anni tutte le volte che ne ho avuto la possibilità ho cercato di costruire una mostra articolata in mostre più piccole. Questa è stata una grande occasione per mettere in scena questo mio metodo ma spero, soprattutto, che attraverso la scomposizione per temi del lavoro di Isgrò il suo percorso arrivi più chiaramente al pubblico. Una sola raccomandazione a chi visita questa mostra: non cercare di fare un puzzle per rimettere insieme le diverse tessere ma piuttosto cercare di stabilire nuove interpretazioni e relazioni del lavoro di Isgrò rispetto a quelle suggerite».
Cosa si trova nel caveau alle Gallerie D’Italia, la sede museale di Intesa Sanpaolo, dove è stata ideata un’illuminazione particolare?
«Per la prima volta questo luogo molto affascinante ospita un’opera per una mostra temporanea: L’occhio di Alessandro Manzoni. Isgrò si appropria del famoso ritratto dipinto da Hayez e lo cancella. Pone sopra il dipinto, ingrandito rispetto all’originale, una griglia di macchie candide come fosse un sipario trasparente. Per esporlo al meglio è stata creata una macchina scenica che permette al visitatore di vedere sempre l’opera dal punto di vista migliore essendo lo spazio fruibile soltanto in alcuni orari. La luce gioca un ruolo fondamentale in tutte e tre le sedi della mostra; crea atmosfere e suggestioni sempre diverse. Con Isgrò abbiamo voluto fortemente che la luce fosse un progetto di Piero Castiglioni, un vero fuoriclasse in questo campo. Lavorare e confrontarmi con lui è stata davvero un’altra grande esperienza».

Emilio Isgrò, vista della mostra, Palazzo Reale Milano
Ultimo atto espositivo a Casa Manzoni: cosa si espone e perché è stata scelta questa sede?
«La scelta di questa sede è una storia di reciproci entusiasmi che Isgrò racconta in un testo scritto per il catalogo edito da Electa. Un testo in cui dice anche perché ha cancellato Manzoni. Non certamente per venire incontro ai sogni di molti liceali, ma piuttosto per riportarlo all’attenzione come un tesoro italiano oltre che come il grande interprete del nostro paese.La cancellatura di Isgrò sui 35 volumi della “quarantana” si alterna nei colori nero e bianco, talvolta si fa liquida e trasparente lasciando intravedere parole e figure. L’artista si sofferma sulle illustrazioni di Francesco Gonin – che aveva seguito passo passo lo scrittore come la macchina da presa segue il regista – con risultati di indubbio valore pittorico. L’opera che si sviluppa nello spazio con la sequenza di un film, è esposta nella sala del piano nobile, quella dedicata all’iconografia del romanzo e ne rappresenta la sua più attuale riscrittura».
Jacqueline Ceresoli

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