27 settembre 2016

Viviamo in un’epoca bellissima!

 
Questo e molto altro, è quanto sostiene Basim Magdy, incontrato al MAXXI per la sua mostra come vincitore del premio Artist of The Year promosso da Deutsche Bank

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Dal 15 settembre, il MAXXI di Roma e Deutsche Bank presentano al pubblico la mostra di personale di Basim Magdy, artista egiziano classe 1977, vincitore del prestigioso premio Artist of The Year messo in palio dall’istituzione tedesca. Per l’occasione Magdy ha creato un universo in bilico tra reale e fantastico dove sottili ironie e catastrofi post-apocalittiche danzano all’interno di composizioni psichedeliche le quali si espandono su molteplici medium come film, fotografia, installazione e opere su carta. Exibart ha intervistato l’artista per comprendere al meglio i meccanismi creativi di un lavoro estremamente complesso e denso di molteplici significati. 
Le tue opere contengono una forte componente scientifica a cui si affianca un uso della parola scritta che solitamente si inserisce all’interno di ogni visione, aggiungendo nuovi livelli di senso al discorso. Puoi parlarci di questa tua particolare ricerca artistica?
«I livelli sono molto importanti nel mio lavoro, sia nel loro aspetto fisico quando sovrappongo vernice spray, acquarello, acrilico, gouache e collage nella stessa opera, che nella loro essenza concettuale quando intreccio relazioni tra humor, ironia, iperbole e tematiche importanti ma che di solito vengono trascurate. L’elemento testuale in special modo è uno strumento importante che mi permette di far coesistere tutti questi incidenti estetici e concettuali. Inoltre nei miei film il testo costituisce uno dei tre livelli che compongono l’opera, assieme alla colonna sonora ed alle immagini. A volte nei lavori traspare una componente scientifica così come ne affiora una poetica ma preferisco lasciare indizi piuttosto che utilizzare un metodo compositivo diretto e quindi troppo didascalico. In quanto artista ho la fortuna di  poter mescolare tutti questi elementi in un contesto di pura finzione. Se fossi stato uno scienziato la cosa sarebbe stata di gran lunga più difficile da far accettare».   
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Le rovine compaiono all’interno della tua produzione, si tratta di circostanze particolari molto vicine alla recentissima storia del nostro Paese. Le rovine lasciano il sempre il posto alla ricostruzione. Pensi che la distruzione conduca ad una rinascita od all’ennesima vittoria dell’industria e del consumismo? 
«Le rovine ed il senso di fallimento collettivo così come la conseguente ricostruzione sono figure sintomatiche di ogni società, fin dai primi insediamenti della storia. Si tratta di ciclicità che si ripetono nel tempo. Raramente i grandi gruppi di persone riescono ad andare d’accordo, è successo solamente in poche occasioni nel corso della storia dell’umanità. Dopo il fallimento, ogni nuovo inizio non porta mai ad un unico risultato, ci sarà sempre qualcuno che vedrà gli eventi filtrandoli attraverso una prospettiva positiva e chi li giudicherà in maniera negativa. Anche quella che tu chiami la “vittoria dell’industria e del consumismo” è in realtà una sorta di ricostruzione. Non credo nelle catalogazioni ed il consumismo in particolare non esiste di per sé stesso all’interno di un vuoto, ogni parte di quello che chiamiamo “progresso dell’umanità” è interconnessa. In molte parti del mondo il consumismo non è mai arrivato, semplicemente perché è un lusso che molte persone non possono permettersi. Non sono la persona adatta per esprimere giudizi sulle vostre recenti vicende che riguardano le rovine e la ricostruzione, ma penso che l’ultima parola spetti alle persone che vivono in quei luoghi, sono loro che devono accettare le idee esistenti, crearne di nuove e realizzarle». 

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Parlando dei tuoi lavori su carta, mi sembra evidente una componente science-fiction dalle tinte psichedeliche che si apre su scenari post-apocalittici dove l’umanità sembra sia giunta al capolinea. Pensi che stiamo assistendo al nostro fallimento comune?
«I lavori su carta sono da sempre incentrati sulla storia di un futuro che non è mai giunto. Parlo di possibilità, di quello che sarebbe successo se tutte le visioni futuristiche, non radicate nelle realtà del presente all’interno del quale sono state concepite, fossero divenute parte del mondo in cui viviamo oggi. Parlo delle architetture che dovevano essere sviluppate nel circolo polare artico, dei prototipi di satellite che non sono mai riusciti a raggiungere lo spazio o di altri resti di un passato che non è mai divenuto realtà. Tutte queste cose vengono da me riproposte all’interno di set immaginari che offrono diverse forme di presente, non peggiore né migliore ma una semplice alternativa, con tutte le possibilità del caso che ogni alternativa genera. Non penso che l’umanità sia vicina al fallimento collettivo, penso invece che probabilmente stiamo vivendo in una delle epoche più belle della storia. L’unico elemento che ci conduce a credere che gli eventi siano in progressivo peggioramento è il nostro accesso illimitato ad ogni tipo di informazione. In un certo senso inventiamo costantemente nuovi modi per guardare ai nostri fallimenti comuni attraverso una lente d’ingrandimento».    
Le tue sperimentazioni ti hanno mai condotto ad un confronto diretto con una determinata con una precisa linea politica? 
««No, nelle mie opere non esiste una linea politica diretta. Non sto cercando di evitare le questioni politiche, dico semplicemente che le mie opere non lo sono. La politica gira attorno a tutti noi, ecco perché puoi trovarne tracce di riflesso nelle mie opere, come risultante naturale ma non come decisione diretta». 
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Nelle tue opere è evidente una predilezione per la pellicola, parlo dell’uso delle diapositive e del super8. Perché questa scelta?  Solitamente le nuove generazioni di artisti prediligono il digitale, che a differenza della pellicola permette di generare un numero maggiore di immagini in minor tempo. Pensi che i 3 minuti offerti dalla cartuccia super 8 o le classiche 36 pose del rullino fotografico non siano un limite ma una possibilità?
«Si tratta certamente di un limite, ecco perché è stato così facile per tutti passare ad un metodo più pratico ed economico per registrare e archiviare le immagini. Per quanto mi riguarda la pellicola ha un grande potenziale, si tratta delle caratteristiche fisiche del medium; posso toccarlo, alterare il suo aspetto o la sua composizione chimica, giungendo a reazioni che di fatto cambiano drammaticamente l’essenza e l’estetica del prodotto finale. Certamente si potrebbe obiettare che tutto ciò potrebbe esser fatto mediante il digitale ma non penso sia del tutto vero. Il modo in cui la pellicola risponde alla fisicità del mondo che la circonda, come la luce, il movimento, la sua stessa grana o sensibilità è un qualcosa che non può esser riprodotto digitalmente. Se apro la mia macchina fotografica per un millisecondo e lascio che la luce tocchi la superficie della pellicola, essa produrrà delle sovraesposizioni all’interno dell’immagine finale. Se provi a fare la stessa cosa con una scheda SD piena di immagini digitali, non succederà nulla!».
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L’uso di colori brillanti ed  una spiccata predilezione per l’ironia. Sono componenti che affascinano lo spettatore e di fatto spezzano la componente drammatica presente all’interno della tua ricerca. Come convivono questi cortocircuiti presenti nelle opere?
««Non esiste una formula matematica, tutto viene ispirato dalla mia fascinazione per i colori e dal mio interesse nel trovare nuovi modi per estrarli dai differenti medium che utilizzo. Certamente a volte i soggetti che tratto possono risultare non molto allegri ed allora devo controbilanciare il tutto per assicurarmi che l’opera non sia troppo pesante e che possa comunicare con uno spettro più ampio di persone dalle differenti esperienze. Solitamente sono molto contento quando le mie opere generano ogni sorta di reazione emozionale. Nella maggior parte dei casi è la mia priorità. Condividiamo tutti le stesse emozioni, ci esprimiamo in maniere differenti ma nel profondo le emozioni sono ciò che noi tutti condividiamo in quanto esseri umani». 
Il premio Deutsche Bank’s Artist of the Year è uno dei più importanti riconoscimenti internazionali e gli avveniristici spazi del MAXXI di Roma sembrano l’ideale sia per questa grande manifestazione che per le tue opere. Cosa ne pensi a riguardo? 
«Vedere il mio lavoro premiato da una grande istituzione come la Deutsche Bank ed esporre in un meraviglioso museo come il MAXXI è per me motivo di grande gioia e soddisfazione. È stato un piacere lavorare con lo staff di entrambe le istituzioni, in special modo con le due co-curatrici della mostra Anne Palopoli del MAXXI e Britta Faerber della Deutsche Bank».  
Micol Di Veroli

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