13 ottobre 2016

AL CINEMA

 
Tra film, docu-film e grandi piccoli film
di Ludovico Pratesi

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I docu-film hanno la stessa dignità delle pellicole d’autore, e possono aggiudicarsi premi importanti come la Palma d’Oro, il Leone d’Oro o addirittura l’Oscar? Secondo Paolo Sorrentino, indignato per la candidatura di Fuocoammare di Gianfranco Rosi come miglior film in lingua straniera agli Oscar 2017, no. «È un bellissimo film, ma andava candidato agli Oscar nella sezione documentari», dichiara il regista, dimenticando forse che Fuocoammare si è già portato a casa l’Orso d’oro a Berlino: come film, non come documentario. La motivazione? «Film eccitante e originale, la giuria è stata travolta dalla compassione. Un film che mette insieme arte e politica e tante sfumature. È esattamente quel che significa arte nel modo in cui lo intende la Berlinale. Un libero racconto e immagini di verità che ci racconta quello che succede oggi. Un film urgente, visionario, necessario», ha dichiarato Meryl Streep, presidente della giuria alla Berlinale. Così, quello che a Berlino è un film, a Los Angeles potrebbe essere declassato a documentario, al quale Sorrentino avrebbe preferito Indivisibili di Edoardo de Angelis? 
Questa interessante querelle svela in realtà qualcosa di molto più profondo, che riguarda i film candidati dagli italiani ai festival internazionali, e la loro valutazione da parte delle giurie degli stessi festival. Facciamo un caso recente, che mi ha indotto ad una riflessione sull’argomento: il festival del cinema di Venezia 2016, diretto da Alberto Barbera. Tre i titoli italiani in concorso, di cui due stranamente simili nei contenuti, nella sceneggiatura e nella fattura: Questi giorni di Giuseppe Piccioni e Piuma di Roan Johnson, che raccontano entrambi i turbamenti e le ansie dei giovani adolescenti. Il terzo è Spira mirabilis, il documentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, dedicato al racconto dell’immortalità. 
Spira mirabilis, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti
Nessun tema politico, nessun richiamo all’attualità o alla storia, come se ci vergognassimo di Pasolini, De Sica, Scola o Germi, che hanno portato il nostro cinema nel mondo intero. Guai ai film impegnati: nell’Italia di Quo vado dell’esimio Zalone il cinema dev’essere leggero, divertente, frizzante per essere apprezzato dai consumatori di telenovelas, quiz a premi o reality. E lo dimostra anche il cantore dell’adolescenza vissuta tra Garbatella e Monteverde Gabriele Muccino, con il suo imbarazzante L’estate addosso, presentato proprio a Venezia in contemporanea con il festival.
Eppure, tra le pieghe della kermesse veneziana, spunta un piccolo capolavoro: il documentario L’uomo che non cambiò la storia, girato dal regista Enrico Caria e montato da Fabrizio Campioni, composto unicamente con spezzoni originali di film Luce e presentato nella sezione Giornate degli autori, che ho avuto modo di vedere nella proiezione di Venezia a Roma. È la storia del viaggio di Hitler in Italia (Firenze e Roma) nel 1938, raccontato dalla penna finissima del grande archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, giovane cicerone e guida d’eccellenza dei due dittatori, Adolfo e Benito. I suoi diari, pubblicati con il titolo Il viaggio del Fuhrer in Italia, costituiscono il plot della vicenda storica: «durante quelle giornate – confessa – avrei potuto uccidere entrambi, e cambiare il corso della storia,  ma non lo feci». 
L’uomo che non cambiò la storia, di Enrico Caria
Altro che adolescenti in crisi o racconti di immortalità. Qui gli ingredienti per vincere un premio ad un festival ci sono tutti: il rapporto con il fascismo, le complesse relazioni tra intellettuali e potere, l’analisi di un momento storico con il quale il nostro Paese non ha ancora fatto i conti, una sceneggiatura scritta in maniera brillante e mai pedante o noiosa. Eppure questo magnifico gioiello non ha avuto la fortuna di Fuocoammare: nessuno ha pensato di candidarlo in concorso a Venezia e nelle sale uscirà a febbraio 2017. Strano, perché risponde perfettamente a una delle frasi pronunciate dalla Streep per il premio alla Berlinale: «un film che mette insieme arte e politica e tante sfumature». 
Che dire? Quando esce non perdetelo, perché vi racconta tanto sull’Italia di ieri e di oggi con le sue vigliaccherie e le sue miserie, ma anche perché il nostro cinema migliore non è quello sotto la luce dei riflettori nazionali, ma si trova, come ha scritto Goffredo Fofi, tra i piccoli film che mostrano ancora la straordinaria qualità di un Paese che era meraviglioso e oggi sembra essere precipitato in un baratro di volgarità e provincialismo.
Ludovico Pratesi 

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