02 novembre 2016

L’irriverente genio Dada sbarca a Brescia

 
Irriverente e corrosivo, l’avanguardia del ‘900 che getta la sua ombra lunga fino ad oggi, è interrogata da una bella mostra. Che speriamo non ripeta il flop di Christo

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È l’unica grande mostra italiana a celebrare l’importante anniversario del centenario dalla fondazione del Dadaismo, nonché il primo allestimento interamente prodotto dalla Fondazione Brescia Musei che con questa iniziativa si mette alla prova (senza contributi ed eventi esterni a fare da traino: vedi alla voce installazione The Floating Piers di Christo sul lago d’Iseo in concomitanza con l’ultima mostra “Christo & Jeanne-Claude. Water projects”).
“Dada 1916. La nascita dell’antiarte” stazionerà fino al 26 febbraio al Museo di Santa Giulia di Brescia.
Una mostra affascinante, corposa – quasi 270 tra opere, riviste e documenti di indiscutibile valore storico – e, cosa importante, in grado di fornire un racconto verosimile ed esaustivo di quello che fu l’affacciarsi e l’evolversi, breve ma intenso, della vicenda Dada in quella Storia dell’arte che, come noi oggi sappiamo, sconvolse per sempre.
Il percorso espositivo, affidato alla curatela di Francesco Tedeschi ed Elena Di Raddo, con Luigi Di Corato di Fondazione Brescia Musei, si articola in quattro sezioni tematiche, a loro volta suddivise in tredici sottosezioni.
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Si parte con Dada prima di Dada, capitolo introduttivo atto a raccontare quel sotto-strato culturale, quel fermento e quel contesto senza i quali l’uragano Dada non avrebbe potuto generarsi. Vengono dunque affrontati i temi di avanguardia, della Grande Guerra a cui i futuri dadaisti si opposero in maniera molto più che esplicita migrando in massa nella neutrale Svizzera, e del confronto con quel Futurismo – unica grande avanguardia italiana – i cui esponenti assunsero invece posizioni interventiste nei confronti del conflitto bellico e ne pagarono le conseguenze con la loro stessa vita. La seconda sezione, Dada, Zurigo e il Cabaret Voltaire entra nello specifico e lo fa attraverso opere di artisti, esponenti e letterati tra cui Hans Arp e la moglie Sophie Tauber-Arp, Hugo Ball, Tristan Tzara, Max Ernst, le serie di rayogrammi o i ready-made di Man Ray (in esposizione esemplari celeberrimi come il ferro da stiro chiodato Cadeau e il metronomo con fotografia Indistructibile Object) i disegni di Francis Picabia e Hans Richter, la vastissima e variegata produzione di Marcel Duchamp (dai bozzetti per La mariée mise à nu par ses célibataires même o La macinatrice di cioccolato sino agli oggetti come Pliant de voyage), o Kurt Schwitters e i suoi Merz.
I lavori in questione provengono da istituzioni e collezioni private, italiane ed estere, tra cui la Fondazione Marconi di Milano o la raccolta del collezionista bresciano Carlo Clerici che, in un’intervista al Giornale di Brescia, ha raccontato di come negli anni Settanta acquistò in blocco un corpus di 120 lavori dada da Arturo Schwarz. 
L’orizzonte dello spettatore è dunque punteggiato da alcuni tra i più rilevanti reperti della vasta, mirabolante e assai diversificata produzione del movimento, prima di proseguire con la terza sezione, Arte e filosofia dada a cui è affidata una riflessione riguardo tematiche come l’oggetto, la parola, il collage e la sperimentazione fotografica il cui senso, scopo e utilizzo furono letteralmente ribaltati e stravolti da Dada.
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Qualche esempio? Non più pittura da cavalletto, con Dada l’oggetto d’uso quotidiano – prelevato e traslato nel contesto idoneo – può diventare (s)oggetto di pratica artistica. Chi lo decide? L’artista, ovvio.
Che dire della parola? Da significante diviene il suo opposto, ovvero insensata metafora dell’incapacità di comunicazione umana il cui esito estremo fu la guerra; e infine il collage e la sperimentazione fotografica, paradossali ribaltamenti di ciò a cui la fotografia e la carta stampata erano storicamente deputate: documentare fedelmente il reale.
Le analogie con molta arte contemporanea come la intendiamo noi oggi sono eclatanti e, riflettendo intimamente su quanto di Dada sia presente in correnti e pratiche artistiche odierne – come il Concettuale, le performance dagli anni Settanta ad oggi, la Pop Art, fino alla Video-arte – lo spettatore potrà giungere così alla quarta e ultima sezione, intitolata Oltre Dada e in cui si dà notizia dei punti di tangenza tra esperienze dadaiste e del Surrealismo (non rari furono casi di artisti come Man Ray o Ernst che confluirono dall’uno all’altro movimento), Astrattismo e Costruttivismo.
Al netto della questione scientifica che appare ineccepibile, a questa mostra è inoltre affidato il compito di risollevare “i numeri” di un Museo che recentemente è stato al centro di un fatto che non è passato inosservato tra gli addetti al settore. Il riferimento è all’inaspettato fallimento d’incassi della mostra “Christo & Jeanne-Claude. Water Projects”, conclusasi in Santa Giulia a settembre col modesto risultato di 28.279 biglietti staccati in 165 giorni (di cui 24.493 a pagamento, mentre 5.144 gratuiti) e che ha tutto il sapore di grande occasione mancata.
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Un successo che appare tiepido soprattutto se paragonato ai numeri mediamente ottenuti da altre mostre della stessa bellezza e importanza, e senza dimenticare come, nel frattempo, a poca distanza geografica l’installazione sulla sponda bresciana del Sebino abbia calamitato quasi un milione e mezzo di visitatori in soli 15 giorni.
Cosa non ha funzionato? In attesa delle risposte, una riflessione pare doverosa.
La mostra di Christo poteva infatti contare su numerosi punti di forza, primo fra tutti la fama mondiale e la presenza in loco dell’artista a fare da forte richiamo, seguita dalla curatela di uno dei più noti critici d’arte contemporanea viventi, e l’eco mediatica generata da un evento irripetibile come l’installazione The Floating Piers allestita a pochi chilometri di distanza e inserita dal New York Times nella Top Ten degli avvenimenti più importanti e imperdibili del 2016. A ciò ci aggiunga il fatto che – e alzi la mano chi pensa il contrario – l’arte di Christo e consorte, così coinvolgente, sensoriale e, diciamocelo, dalle dimensioni mastodontiche, ben si prestava a stimolare la curiosità e la meraviglia da parte del pubblico cosiddetto “dei non addetti al settore”.
Caratteristiche che – per ovvie e comprensibili motivazioni – l’attuale progetto sul Dada non include, rischiando così di risultare un argomento di nicchia, di comprensione più ardua e meno accattivante nei confronti del grande pubblico, pur rimanendo un tema tra i più importanti per la contemporaneità artistica. Forse il più rilevante di tutti.
Noi ovviamente auguriamo a “Dada 1916. La nascita dell’antiarte” tutto il successo che questa mostra merita. Ma se nemmeno “nostro Signore della Land Art” è riuscito nel miracolo di riempire i corridoi di Santa Giulia, vorremmo dire che qualche dubbio è lecito.
Bianca Martinelli

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