01 febbraio 2017

CURATORIAL PRACTISES

 
Gli Occhi sulla Quadriennale
Conversazione di Camilla Boemio con Luca Lo Pinto

di

Questa è la prima di due conversazioni con i curatori di “Altri tempi, altri miti” la Quadriennale di Roma e l’ospite è Luca Lo Pinto. Nato nel 1981, vive tra Vienna e Roma, lavora come curatore presso la Kunsthalle di Vienna ed è il fondatore della rivista e casa editrice NERO. Ha curato cataloghi e scritto per numerose riviste internazionali. Tra le sue mostre ricordiamo: “Le Regole del Gioco, Achille Castiglioni” Studio-Museum; “Pierre Bismuth-Der Kurator, der Anwalt und der Psychoanalytiker”, Kunsthalle Wien; “In Real Life”, Christine Konig Galerie; “Trapped in the closet”, Carnegie Library/FRAC Champagne Ardenne; “Antigrazioso, Palais” de Toyko; “Luigi Ontani-AnderSennoSogno”, H.C. Andersen Museum; “D’après Giorgio”, Giorgio e Isa de Chirico Foundation.
Torna dopo otto anni la Quadriennale d’arte di Roma, al Palazzo delle Esposizioni, con il titolo “Altri tempi, altri miti” dando voce a una pluralità di linguaggi e focalizzando l’attenzione sulle potenzialità delle nuove generazioni. È forse la mostra più visitata, sicuramente la più discussa, della stagione. Introduce un percorso curatoriale a più voci (undici in tutto), nel quale sono presenti differenti metodologie di costruzione di una mostra. Puoi introdurci la tua sezione espositiva: “Ad Occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti”? 
«Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti è una mostra collettiva che si interroga sulla visione, sull’interpretazione, sul concetto di storia intesa come racconto insieme singolare e plurale, su come guardiamo alle cose e come le cose guardano noi in un rapporto dialogico. Il display è volutamente teatrale come a ricreare un immaginario futuro museo archeologico del presente dove sono presenti reperti, frammenti, di un palinsesto che coniuga linguaggi, attitudini, traiettorie eterogenee. È un ambiente immersivo sospeso in una temporalità indefinita con opere che si prestano ad essere interpretate in maniera molto aperta poiché non aspirano a veicolare un messaggio preciso. Sono dei dispositivi di visione che alimentano un continuo rimando tra loro. Molte delle opere mostrano, su un piano sia simbolico che materico, i segni di un trauma. Mi interessava esplorare il concetto di trauma anche dalla prospettiva di questi oggetti inanimati come se avessero una vita, una memoria e degli occhi per guardarsi e guardare chi li osserva. Un dialogo proiettato all’interno di un discorso fenomenologico non antropocentrico».
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La ‘Contemporaneità’ non è una categoria temporale, ma una direzione metodologica che va delineandosi e si rimodella continuamente. È un approccio complesso per la lettura del nostro scenario sociale, politico e culturale. Potresti introdurci la scelta dei sette artisti, ed i loro lavori site-specific?
«Ho voluto articolare la mostra a partire da opere specifiche più che dalla scelta degli artisti. Tutto il progetto ha origine da uno strano oggetto di cui conosciamo solo l’autore, Emilio Villa. È un frammento di vetro dipinto dove è raffigurata l’immagine di una vergine alata e sul quale è inscritto in pennarello un testo in greco in parte cancellato. È un oggetto complesso da definire, privo per l’altro di una datazione. Villa, una dei personaggi più anarchici e radicali della cultura italiana, è un po’ il catalizzatore dei pensieri e delle suggestioni che animano la mostra. Villa tra l’altro si era dedicato agli studi di filologia semitica e sumerica specializzandosi in assiro-babilonese e in ugaritico. Questo si lega alla presenza del Pazuzu di Roberto Cuoghi. Pazuzu è un demone, re degli spiriti malvagi dell’aria, e dio babilonese di cui Cuoghi ha prodotto molteplici varianti partendo dalla scansione di un minuscolo amuleto conservato al Musée du Louvre di Parigi. Un’archeologia concepita in funzione dell’immaginazione e della metamorfosi. Sia il frammento di Villa che la scultura di Cuoghi sono difficili da ascrivere ad una precisa temporalità. Questo senso di sospensione è alimentato dalla traccia di Lorenzo Senni suonata in tutta la sala costantemente e che ti conduce in uno stato quasi di trance. Si tratta della traduzione in musica dell’esperienza visiva e sonora vissuta da Senni osservando Tokyo dal 40esimo piano di un grattacielo. Le fotografie di Giorgio Andreotta Calò sono anch’esse legate alla traduzione espansa di una memoria personale. Si tratta di quattro polaroids che l’artista ha “spellato”, aprendole e giustapponendo l’immagine alla traccia dell’emulsione fotografica in un processo di trasfigurazione. Un ulteriore esempio di oggetto traumatizzato e del “performare” la storia. Tutte le sculture di Nicola Martini sono frammenti prodotti dallo stratificarsi di materiali diversi di cui l’artista ha un controllo solo parziale nel determinare la forma finale. Mi piace pensare agli oggetti come nuclei di relazioni. In particolare le opere d’arte sono sempre dei mediatori che si caricano delle qualità delle relazioni umane. I poggia schiena di Martino Gamper sono forme in legno installate al muro da guardare ma soprattutto da usare per guardare lo spazio, le altre opere e gli altri spettatori. La mostra è concepita come una palestra dove esercitare lo sguardo e l’interrogarsi su ciò che abbiamo davanti. Vuole produrre una suggestione più che l’illustrazione di un tema. L’unica opera commissionata per l’occasione è quella di Rä di Martino. Ho chiesto a Rä di lavorare sull’archivio iconografico della XI Quadriennale del 1965/66 che ha avuto luogo poco prima dello scoppio della rivoluzione studentesca. Mi interessava confrontarmi con la storia della manifestazione e con il luogo che la ospita. Ispirandosi alle immagini d’archivio del vernissage in cui appariva il pubblico dell’epoca, Di Martino ha invitato un gruppo di comparse a visitare la mostra di questa Quadriennale prima dell’inaugurazione vestendole una parte come negli anni ’60 e un’altra con vestiti contemporanei documentando l’azione in una serie di foto a colori e bianco e nero. Ha sincronizzato due temporalità diverse – il pubblico degli anni ’60 e quello di oggi – in una sorta di reenactment tra realtà e finzione».
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Come è stato lavorare insieme con gli altri curatori?
«Positivo. C’è stato un processo di condivisione anche se non di vero approfondimento visti i tempi stretti, gli impegni di ciascuno e le distanze geografiche».
Come reputi siano cambiate le pratiche curatoriali negli ultimi anni?
«Negli ultimi anni lo scenario geopolitico ha subito dei grandi mutamenti che hanno inciso anche sul sistema dell’arte. Il ruolo delle istituzioni si è indebolito lasciando spazio all’espansione di un mercato globale. Al contempo lo sviluppo tecnologico ha esercitato una modifica radicale alla fruizione dell’arte. I confini tra linguaggi e discipline sono evaporati dando vita a sconfinamenti non sempre positivi. Di conseguenza sono cambiate le modalità espositive e curatoriali. Tutto si è professionalizzato portando ad una normalizzazione e ad una forma di consenso pericolosa. L’arte non deve risolvere problemi, ma crearli».
Come si creano le condizioni per le strategie educative nel rapporto tra l’arte e il suo pubblico?
«Investendo in primis sulla formazione di chi ha il compito di mediare con il pubblico. Mi riferisco soprattutto alle istituzioni pubbliche. All’estero si investe molto su questo aspetto e i servizi educativi sono concepiti in modo anche sperimentale. Educare non significa imporre dall’alto un messaggio, ma sviluppare un dialogo basato sulla curiosità, sulla condivisione e sulle idee». 
Inevitabile chiedertelo, quali differenze ci sono tra Roma e Vienna, nella ricezione e nel seguito dell’arte contemporanea? 
«Sono due città con modelli sociali, politici e culturali molto diverse. Vienna è una piccola città dove esiste ancora il welfare. Lo stato è presente in ogni aspetto della vita dei cittadini. In cambio impone un grande rigore. Questo si riflette anche nell’arte. Quasi tutte le istituzioni, comprese quelle private, godono di un finanziamento pubblico. Tuttavia, l’energia intellettuale ed economica impiegata nel produrre cultura non sempre è ricambiata da un grande interesse del pubblico. Roma, al contrario, è una città selvaggia, senza regole, con una politica culturale priva di una visione chiara. Ciò nonostante ha una vitalità insita nell’anima e una storia che la tiene in piedi. Le cose accadono ma in modo frammentario ed episodico. Quando riescono, producono un entusiasmo che a Vienna, ad esempio, sarebbe impossibile immaginare».
Camilla Boemio

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