30 novembre 2016

MUSICA

 
La “Seismographic Sounds” di Norient porta la sua nuova visione del mondo da BASE, a Milano
di Chiara Morelli

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Ammettiamo di essere la minima parte di una voce, che rappresenta in minima parte una fetta di mondo che in realtà esiste e che troviamo ormai da anni a nostra disposizione nell’immenso universo internet. 
Ma cosa succede se qualsiasi individuo in grado di accedere a questo mare ha la possibilità di confrontare la propria realtà con le altre? Artisti, musicisti, blogger e giornalisti da tutto il mondo provano a dire la loro riguardo a temi come guerra, ricchezza, solitudine o desiderio che, inutile dirlo, sono universali.
Se qualcuno si è preoccupato di confluire tutti questi punti di vista e contenuti in un’unica piattaforma è Norient (Network for Local and Global Sounds and Media Culture): ideato e realizzato a Berna nel 2002 da Thomas Burkhalter, Simon Grab e Michael Spahr, è però un portale animato e riempito da professionisti del settore musicale di tutto il mondo.
Ed ora arriva il bello. Norient non si è fermato al magazine online, è diventato un Festival, è diventato una serie di libri, film, documentari, ma anche esibizioni e programmi radio, per dare all’informazione ogni forma e pubblico da ogni dove. 
Oggi Norient diventa la mostra audiovisiva “Seismographic Sounds: Visions of a New World”, a libera disposizione, presso gli spazi di BASE, per tutti coloro che passano da Milano fino al 23 dicembre 2016.
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Il pianeta digitale, sede e promotore di scambi interculturali, si fa concreto, ma non per questo perde di ricchezza. Se è vero che la navigazione internet non ha limiti, è vero anche che accendere un pc e scegliere uno dei canali a disposizione, ascoltare un artista e leggere questo o quell’articolo, non rende l’impatto di questa mostra: è fatta per orientare il pubblico verso realtà sonore che, forse, non è solito approcciare, ma il risultato è quello di disorientarlo, causa la moltitudine di contenuti e della loro modalità di espressione.
Un portale ricco di slogan apre la via al parco divertimenti: a destra e a sinistra poster, manifesti, foto, racconti, in formato audio o scritto, e cabine mini-cinema dalle insegne luminose, colorate e intermittenti, che vogliono attirare il pubblico in un percorso sonoro e visivo che non ha capo e non ha coda, che non ha ordini di importanza e gerarchie. È un luogo unico e reale, ma fatto di quelle  interconnessioni digitali che hanno tessuto un mondo più difficile e complesso, ma molto più consapevole di quello tangibile: nulla è dato al caso, ogni ricerca è stata svolta con un obiettivo chiaro e comune, ascoltando più voci competenti possibili.
Infatti le 250 opere presentate in mostra sono state selezionate come le più rappresentative dei temi scelti (War, Belonging, Money, Loneliness, Exotica e Desire) nella rosa delle 2mila proposte fatte. Gli artisti suggeriscono una rottura: non esiste più il punto di vista occidentale che guarda quella che chiamiamo erroneamente, ormai da troppi anni, “world music”, come se la musica prodotta in Africa o in Medioriente debba essere vista come qualcosa d’”altro”. Nella visione del nuovo mondo non ci sono i canoni elitari nordoccidentali che hanno dominato la scena musicale fino al nuovo millennio. Ad esempio, uno dei cartelloni recita che “Gangnam Style” del rapper sud-coreano Psy, fu il primo esempio di un nuovo trand che vede il successo di hit dall’Africa, Asia e America latina prodotte e finanziate localmente senza l’aiuto di agenti euro-statunitensi. Nelle modalità di produzione, finanziamento, promozione e distribuzione, la sound art sta cambiando per forza volto e voce, si sta adattando ai nuovi strumenti che dispone. Non solo, ma che questo sia un bene anche per la creatività non v’è ormai più alcun dubbio. Forse questi artisti non corrispondono all’estetica a cui siamo abituati e forse molti di loro non sono e non saranno mai parte del flusso mainstream manipolato dal mercato capitalista. Questo perché sfuggono dalle logiche razziste, sessiste o fanatiche di chi chiude gli occhi di fronte alla paura della novità o del diverso. 
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Forse non è ancora chiaro quali vie prenderà questo cambiamento, ma è ormai sicuro che sia già in atto e in molti, Norient tra i primi, ne hanno già preso coscienza. Per questo la mostra si propone di registrare tutti quei fenomeni “sismici” che minano allo stato di permanenza delle cose, come un sismografo della nostra società.
Dunque spiegato, per esempio, l’etnotrash del videoclip “Albion Voice” della cantante Bishi, di “pelle indiana ma inglese nel cuore”: con una rivisitazione in chiave indiana della canzone pastorale inglese reagisce in modo uguale e contrario a quel processo di occidentalizzazione della musica indiana iniziata con i Beatles negli anni Sessanta, ridicolizza la figura della regina e chiama in causa tutti quei riferimenti culturali che fanno dell’Inghilterra la stessa patria conservatrice dell’età del colonialismo e che, soprattutto all’avvento della Brexit, rende quest’opera micidiale.
Se volete approfondire la tematiche o semplicemente capire meglio di cosa si tratta, la mostra sarà costellata di altri eventi, performance e collaborazioni: dall’1 al 3 dicembre con #MASH, festival organizzato da S / V / N (Savana), il 9 dicembre con MADAM e il 14 e 23 dicembre con presentazioni di libri e feste natalizie.
Chiara Morelli

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