30 novembre 2016

Fino al 23.XII.2016 Non amo che le rose che non colsi Richter Fine Art, Roma

 

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Finalmente pittura. Mentre in molti ne lamentano la sostanziale assenza alla XVI Quadriennale (le uniche  presenze sono quelle, efficacissime, di Nicola Samorì, Matteo Fato, e dei maestri Carol Rama e Gianfranco Baruchello), la neonata galleria Richter Fine Art, a pochi passi da Castel Sant’Angelo, la recupera in pieno, promuovendo una collettiva di cinque pittori e rivelando da subito una precisa condotta curatoriale, attraverso cui “dimostrare come fare quadri, oggi, non possa essere considerato il rituale desueto di una riserva indiana”. Il titolo, “Non amo che le rose che non colsi”, è un verso di Cocotte, componimento poetico del 1911, tra i più noti e apprezzati di Guido Gozzano, “in grado – come scrive Saverio Verini nel testo critico in catalogo – di cogliere e restituire, attraverso una scrittura fatta di immagini concrete e vivide, un’idea di struggimento e inquietudine, un senso di nostalgia che si può ritrovare anche nei dipinti degli artisti, ognuno dei quali ha tradotto questo sentimento in maniera del tutto personale”. 
Sedici opere s’impongono con colori accesi o scuri, segni taglienti o flessi, sulle bianche pareti della galleria, componendo un percorso denso ed equilibrato, con cinque opere di grandi dimensioni al piano terra e le restanti, mensuralmente più contenute, nel vano ipogeo. Si parte con Silvia Argiolas (Cagliari, 1977) che stigmatizza la visione della femminilità, celebrandone la bellezza corrotta, richiamando nelle iconografie e nelle tecniche la migliore tradizione espressionista, da Munch a Baselitz, passando per Kirchner e Matisse. Manipola miti femminili antichi (la Gioconda) e contemporanei (Amy Winehouse) recuperando la fierezza della donna, protagonista consapevole, a tratti aggressiva e sfacciata, oramai lontana dai ruoli in cui l’uomo l’ha relegata. Energiche donne, metà eroine metà prostitute, sono ritratte entro ambienti colorati con una rinnovata fierezza. Il loro è un fare sardonico e dissacrante attraverso cui l’artista, in una sorta di horror vacui segnico e cromatico, afferma l’orgoglio femminile, tra pose ambigue e suppellettili varie. 
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Non dissimile sul piano strettamente segnico è la maniera di Dario Carratta (Gallipoli, 1988). Colori evidenti, a volte sgargianti, contrasti cromatici netti e audaci e una pennellata decisa, tagliente, simile a fendente, sono gli elementi essenziali del suo abecedario iconico. Una figurazione grottesca, a volte spettrale, capace al contempo di attrarre e respingere, senza mai cadere nel banale o nel ridicolo. È l’inquietudine l’elemento basilare della sua pittura, un fattore che l’artista infonde sulla tela per trasferirlo intatto allo spettatore, mentre la superficie dipinta diviene piano di trasmissione emotiva e di condivisione esistenziale. 
Assai differente è, invece, lo stile di Giuliano Sale (Cagliari, 1977) in cui echi surrealisti si combinano al denso pittoricismo inglese, tra Bacon e Lucien Freud, passando attraverso brani informali e picassiani. Un melting pot iconico generato da una pittura autenticamente fluida, determinata da pennellate ampie e scorrevoli ma anche da un approccio ibrido alla realtà, continuamente ripensata, in perenne bilico tra figurazione e astrazione. Una via audace e di grande fortuna che consente di adottare pretesti molteplici, naturali (il ritratto) o artificiali (un’opera d’arte del passato), reinventandoli fino a far confluire gli uni negli altri. Alla luce di ciò si comprende bene la predilezione per Ingres e la citazione in The Wrong Turkish Bath, artista ambiguo per eccellenza, tra i pochissimi che hanno saputo riversare la lezione del passato nell’inquietudine del suo tempo, apparendo ancora oggi suggestivo e attuale. 
Sulla stessa posizione di ambiguità – benché con una maggiore propensione verso soluzioni astratte – si colloca anche la produzione di Luca Grechi (Grosseto, 1985). L’origine figurativa di ogni sua composizione, oltre che nei titoli, è ancora percepibile in dettagli minimi, come la forma di un fiore o il profilo di nuvole o montagne, ma tende a dissolversi nell’energia di una pennellata o nella placida distesa di una campitura in favore di una fruizione decisamente più espressiva che contemplativa. Un’ambiguità  percettiva che a volte porta con sé l’aspirazione sinestesica, come in Blu incenso, dove la nota cromatica percepibile con la vista è associata, forse per via concettuale (il blu come l’incenso rimanda all’oblio e alla dimensione spirituale), a ciò che è apprezzabile solo con l’olfatto. 
Conclude il percorso Emilio Leofreddi, anagraficamente il più maturo dei cinque. La sua a differenza delle altre si configura come una pittura più pacata, meno virulenta e aggressiva, attenta al fattore estetico più che a quello espressivo, che alla pittura strettamente intesa associa collage e scrittura. Uno stile connotato da suggestioni impressioniste e velature pop, evidentemente passato al vaglio di differenti stagioni, non di rado declinato in composizioni verbovisive. In The big jardin japanese le ninfee dell’ultimo Monet appaiono filtrate dalla lezione dei Paesaggi anemici di Schifano, ultimo, glorioso periodo di un’artista di grande intuito ma ormai alla deriva, conosciuto personalmente da Leofreddi. Proprio il noto artista romano, infatti, è stato tra i suoi primi sostenitori, finanziando nel 1992 la realizzazione di un suo lavoro installativo contro la caccia alle balene. Sopita la vis polemica, lo stile dell’artista appare oggi sognante, studiato con attenzione, autenticamente evocativo e mai anacronistico, opportuna conclusione di una mostra poetica nel titolo e nostalgica negli intenti, foriera di ulteriori e ben più vaste riflessioni sul complesso (e accidentato) mestiere dell’arte.
Carmelo Cipriani
mostra visitata il 18 ottobre 
Dal 18 ottobre al 23 dicembre 2016
Non amo le rose che non colsi
Richter Fine Art
Vicolo del Curato 3, 00186 Roma
Orari: dal martedì al venerdì dalle 13.00 alle 19.30; il sabato dalle 9.00 alle 20.00.
Info: 3929173661, www.galleriarichter.com

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