14 dicembre 2016

Si fa presto a dire retrospettiva!

 
Tre mostre in corso pongono una questione che costituisce una vera e propria sfida curatoriale. Come raccontare al meglio un artista, scomparso o dalla lunga carriera?

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Raccontare con una mostra la vita, il pensiero e la carriera di un artista scomparso non è cosa facile. La prima sfida è l’esaustività, il desiderio di raccontare in maniera più esauriente possibile la complessità dell’autore, senza essere pedanti, noiosi o didascalici. La seconda riguarda invece la leggibilità del lavoro: soprattutto nel caso di personalità particolarmente complesse, si rischia di non essere in grado di rendere in maniera accessibile al grande pubblico le diverse tappe del suo percorso creativo. Infine, la mostra rischia di apparire troppo piatta, priva della forza visiva e creativa che ogni maestro è in grado di infondere alla presentazione del proprio operato.
E se la retrospettiva non è mi un’impresa facile per il curatore, obbligato a compiere una serie di scelte su una materia incandescente: l’opera omnia di un maestro che attende una rilettura plausibile, coerente e leggibile, possiamo dire che anche un’esauriente antologica presenta spesso problemi analoghi. Con quali criteri, e soprattutto con quali risultati pensarla e allestirla? 
Vi propongo una riflessione basata su tre rassegne attualmente in corso in altrettante istituzioni museali pubbliche italiane: Eliseo Mattiacci al Mart, Fabio Mauri al Madre e Aldo Mondino a Villa Croce. 
Eliseo Mattiacci, Motociclista, 1981, foto Claudio Abate
L’antologica di Mattiacci, curata da Gianfranco Maraniello, si concentra sul rapporto tra la scultura e lo spazio, intesa soprattutto come percorso di relazione tra l’uomo e il cosmo. Divisa in due parti, la mostra comincia con alcune opere degli anni Sessanta – raramente esposte –  per poi proseguire con una serie di lavori legati all’idea del cosmo, in un percorso chiaro e leggibile nelle sue coordinate stilistiche, forse non troppo valorizzato dallo spazio espositivo. Costruita con un taglio curatoriale preciso,  grazie a didascalie esaurienti ma concise, la rassegna è un’importante occasione per ammirare opere monumentali come Locomotiva (1964), Motociclista (1981) o Piattaforma esplorativa (2008), che costituisce il cardine ideale intorno al quale ruota la seconda parte dell’esposizione. Una spettacolarità misurata ma significativa è l’impressione generale del progetto, che appare non come una retrospettiva su Mattiacci bensì come un’analisi di alcuni essenziali aspetti del suo lavoro. “Retrospettiva a luce solida”, curata da Laura Cherubini e Andrea Viliani al Madre di Napoli, si pone invece in maniera più ambiziosa, con lo scopo di presentare l’intera carriera di Fabio Mauri, suggerendo una chiave di lettura fin dal titolo, rafforzata dalla struttura del museo, particolarmente adatta a questa tipologia di esposizioni. Grazie al rigore e all’esperienza dei curatori, il pubblico viene accompagnato passo dopo passo a comprendere l’indubbia complessità della ricerca dell’artista attraverso una scrittura espositiva logica e condivisibile: nella grande sala al piano terra ci sono le opere legate al teatro, al mezzanino le maquette delle mostre, presentate per la prima volta, e infine al secondo piano la produzione vicina al cinema. 
Questa divisione permette di entrare nel mondo di Mauri, puntando sul senso di ogni singola opera con tutte le sue implicazioni storiche, simboliche e sociologiche, mentre la sezione dei plastici di tutte le mostre realizzate dall’artista ci fa penetrare nella dimensione più segreta del pensiero del maestro: come e in che modo presentare il proprio lavoro. Non mancano lavori rari e poco visti, dalla sinistra e spettacolare Sala del Gran Consiglio (Oscuramento) del 1975 ai primi lavori degli anni Cinquanta, che si confrontano con l’estetica pop ma da un versante più concettuale (The end (1957-58) fino all’installazione più giocosa della mostra, Luna (1968) dedicata all’allunaggio. Infine, anche rispetto all’ultima retrospettiva dedicata a Mauri, curata da Carolyn Christov-Bakargiev alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nel 1994, questa mostra appare più leggibile e puntuale, soprattutto nella scansione espositiva delle tre diverse sezioni. 
Aldo Mondino, vista della mostra, foto Henrik Blomqvist
Un terzo modello, infine, è quello scelto da Ilaria Bonacossa per “Moderno Postmoderno Contemporaneo”, l’antologica di Aldo Mondino a Genova, suddivisa in un percorso che parte dal museo di Villa Croce, dove si trova il nucleo principale della mostra, per poi toccare il palazzo della Meridiana, dedicato alla produzione più recente, e proseguire in altre sedi della città, come la casa di Colombo, il palazzo Ducale, palazzo Bianco e palazzo Rosso, il palazzo Reale e l’Acquario, che ospitano installazioni site-specific. Anche in questo caso la mostra punta su opere di grandi dimensioni come la Piscina di marshamallow (1982), Progetto Siena (1995) e Festa Araba (1985) insieme a lavori storici molto innovativi come la Tavola Anatomica (1963) o Tenda (Casorati) (1964) ancora ispirati al Surrealismo. 
Da sottolineare il fatto che per un artista di matrice pop come Mondino appare vincente l’idea di creare un percorso all’interno della città, proprio per rimarcare il rapporto tra le sue sculture e l’immaginario urbano, al fine di creare uno stimolante cortocircuito tra passato e presente, tutto all’insegna dell’ironia e della provocazione.  A differenza di Fabio Mauri, Aldo Mondino è un artista in grado di affrontare la sfida con una città, senza timore di non essere compreso. E questa mostra lo suggerisce in maniera garbata, ma decisa.
Ludovico Pratesi 

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