09 gennaio 2017

Come è triste il Macro tra Kapoor e MAAM

 
La mostra in corso dedicata all’artista indiano rivela la debolezza del museo. Che non si rialza con simili iniziative, né con idee che ne snaturerebbero il già opaco profilo

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Cominciamo dalla mostra. L’antologica su Anish Kapoor è alquanto brutta e sbagliata. Brutta perché mal allestita, ossessivamente ripetitiva, dove l’artista, seppure grande artista, sembra esser stato lasciato libero di dare il peggio di sé. Ma a volte anche i grandi artisti sbagliano, e i curatori servono a correggere i loro sbagli o, nel migliore dei casi, a evitarli del tutto. 
So che scrivendo queste cose rischio di inimicarmi persone pur care, perché purtroppo nel mondo dell’arte, a differenza di altri ambiti culturali, non si può essere critici (estrema fragilità di questo mondo? Temo di sì). Ma penso sia l’ora di dire ciò che si pensa sul serio, senza infingimenti, con la schiettezza di una critica che aspira a non essere sfascista, ma motivata e positivamente intenzionata. E penso sia giusto farlo soprattutto in una città come Roma, dove non solo i rifiuti e i trasporti ci fanno scivolare verso Beirut e Mumbai, ma dove anche la cultura non se la passa troppo bene. E il Macro purtroppo, museo che non era nato sfigato ma che nel corso degli anni lo è diventato per via del paradossale assoggettamento politico che ne decide il destino, è uno degli emblemi della cultura che non funziona a Roma. 
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E qui veniamo alla scelta di fare una mostra del genere in tal museo. Kapoor è stato uno straordinario artista.  Più di venti anni fa ci ha incantato con le sue polveri, i suoi sassi, l’enigmaticità dei suoi specchi convessi. Poi, tre, quattro anni fa, ha avuto una svolta. Pienamente legittimo, e anzi spesso lodevole, che un artista non insista sulle pratiche e le opere che l’hanno portato al successo. Ma nel suo caso, a mio parere, si è trattato di un’involuzione. Se ne è potuta osservare piuttosto chiaramente la traiettoria verso il basso con la mostra presso la Royal Academy of Arts di Londra di tre anni fa. Mostra inutilmente roboante, muscolare senza molto senso, spettacolare e un po’ volgare. L’involuzione è stata confermata dall’installazione a Versailles di un anno fa e a voglia a dire, Kapoor, che gli «interessa il vuoto, uno spazio pieno di quello che non c’è», come ha dichiarato in conferenza stampa. A noi sembra che invece ci sia un pieno aggressivo e c’è modo e modo di fare questa roba e se si comincia a somigliare a Herman Nitsch che, può non piacere e può non interessare, ma a cui certo non si può rimproverare mancanza di coerenza e di coraggio, qualcosa non va. 
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Ma che succede proprio quando qualcosa non va? Che Roma, il museo Macro nella fattispecie, gli dedica una grande mostra. Del fatto in se stesso, della grande mostra, non possiamo che essere contenti. Finalmente il museo tira una boccata d’ossigeno, libera l’ex Sala Enel, bella e difficile da allestire e governare, da quelle mortificanti pannellature. E tutto questo con un grande e celebre artista. Del quale però si presenta quasi esclusivamente l’ultima produzione, quella peggiore, quella che – sfido chiunque abbia un certo occhio – possa giudicare favorevolmente. Si dice che il museo, una volta tanto, non sia ricorso alle gallerie, che abbia finanziato lui la mostra con il sostegno di BNL. Ottima notizia, peccato che poi non è stato in grado di dialogare alla pari con l’artista. Peccato che non sia stato in grado di spiegargli, che, arrivando per la prima volta a Roma, che non sarà Londra ma che non è neanche Bamako (con tutto il rispetto per la capitale del Mali e del suo raffinato festival di fotografia), forse doveva proporsi al pubblico romano facendogli capire di che artista si tratta, che storia ha dietro, quali invenzioni l’hanno portato a un rapido successo fino ad essere considerato tra i più grandi artisti viventi. 
Anish Kapoor, vista della mostra MACRO, Roma, 2016

E, invece, niente di tutto questo. Rosso, vetroresina, buchi, fessure, vagine, una matericità che si ripete drammaticamente e soprattutto molto ossessivamente. Slabrata e asfissiante, che consegna il Macro al suo destino di museo sbagliato, nato sotto una cattiva stella. 
Ora, è molto probabile, e per chi ne sa appena un po’ di flussi di pubblico è addirittura evidente, che la mostra di Kapoor sarà un successo per il Macro. E che questo forse può bastare alla direzione che non c’è e all’assessore Luca Bergamo, cui il Macro risponde, e che nel frattempo è diventato vicesindaco. Ma basta sul serio? Che progetto si ha per questo museo, che da anni è sbatacchiato da un direttore a un altro (quindi sotto una giunta comunale e un’altra), senza aver dato a nessuno la possibilità di imprimergli un profilo, una mission, un’identità precisa? Che idea si ha di un museo d’arte contemporanea cittadino, che pure è costato bei soldi alla collettività, che pure potrebbe svolgere un ruolo nella vita culturale di Roma? Ci si può accontentare di galleggiare con una programmazione di mostre per lo più autofinanziate (succede ormai a quasi tutti musei italiani e quindi, da questo punto di vista, il Macro non fa notizia) più qualche guizzo, tipo questo di Kapoor, o pensare magari di farne un’altra cosa sul modello del MAAM?
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Che cos’è il MAAM? Per chi non lo conosce sorge al Prenestino, periferia est della Capitale, è acronimo di Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, fondato da Giorgio De Finis in un ex fabbrica occupata, che negli anni si è caratterizzato come spazio aperto al territorio e a street artist, collettivi e singoli artisti che non si riconoscono in gallerie e che lì trovavano un luogo dove lavorare ed esporre. I risultati, come è sempre in casi simili, sono stati e sono altalenanti, molto dipendenti dalla qualità di chi vi interviene. Ma soprattutto il MAAM è una cosa precisa, ha la sua ragion d’essere perché si trova, appunto, in quel quartiere con cui ha allacciato rapporti e ha un’utenza non sempre necessariamente interessata all’arte, ma alla pratica dell’incontro. Il Macro è un’altra cosa.
Sappiamo che Luca Bergamo è andato al MAAM e che ha apprezzato, cosa che ci fa solo piacere. Pare anche, però, che abbia vagheggiato l’idea di esportare il modello MAAM al Macro, con un occhio alle periferie, come è emerso anche dal suo intervento agli Stati Generali della Cultura del 20 dicembre scorso, cercando di dirottare alcuni finanziamenti privati su aree meno appetibili per investimenti. Tutto questo è lodevole e speriamo che Bergamo riesca a convincere della bontà del progetto il ministro Franceschini. Solo che il Macro non è il MAAM e se si vuole legare l’identità di questo museo a un progetto più vasto che accolga anche le periferie, non si può prescindere dal fatto che il Macro sorge in un quartiere residenziale e terziario di Roma, abbastanza centrale dove l’età media degli abitanti è allineata con l’età media ella popolazione italiana. È cioè alta, se non anziana. Non ci sono quindi le condizioni per fare, appena fuori le mura che delimitano il centro storico di Roma, un nuovo museo dell’Altro e dell’Altrove. 
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Il Macro ha un’altra vocazione, dovrebbe essere il Beaubourg romano e cioè un produttore di cultura, articolando la programmazione tra grandi mostre (fatte meglio di questa di Kapoor), esposizioni che riguardano la vita culturale romana (come ha già fatto e fa) con proposte che abbiano il profumo della ricerca e che magari vanno oltre l’arte visiva per mettere in dialogo quest’ultima con altri ambiti della conoscenza. E poi dovrebbe giocare di sponda con Palazzo delle Esposizioni, altro luogo della cultura cittadina abbandonato a se stesso e a una programmazione random, dipendente dai soldi che improvvisamente e miracolosamente arrivano e dalle idee più brillanti di qualcuno, come è stato con Bernabè e la Quadriennale.    
Ma Luca Bergamo, oltre che vicesindaco, è uomo con uso di mondo e di cultura e siamo sicuri che non cadrà in inutili vagheggiamenti, dando presto a Roma un profilo culturale degno di una Capitale.        
Adriana Polveroni

5 Commenti

  1. Considero veramente triste la mostra al Macro, inguardabile questa pseudo avanguardia a tutti i costi. Scelta curatoriale pessima in un museo bellissimo e assolutamente sprecato!

  2. Dell’articolo di Adriana Polveroni sulla mostra di Kapoor al MAXXI condivido l’idea che “di una mostra di un grande artista non si può essere che contenti”; ma condivido anche altre osservazioni tra cui la preferenza per le opere del “primo Kapoor” (e fino a qualche anno fa comprese quelle alla Biennale veneziana) rispetto alle ultime presentate. Il riferimento ad analogie con Nitsch c’entra, ma non è (non sarebbe) operazione così ‘devastante’. Penso che Kapoor abbia risorse ancora da usare

  3. Che Kapoor abbia, e trovi, altre risorse ce lo auguriamo tutti e non lo mettiamo in dubbio. Attento però, gentilè Attilio, a non confondere il Macro con il Maxxi

  4. La sua analisi sociologica di Tor Sapienza non solo è superficiale, ma fa acqua da tutte le parti, come del resto quella relativa agli artisti e alle risorse intellettuali che hanno operato al MAAM, al pubblico che lo frequenta, alle funzioni che svolge eventualmente nel territorio, altrove e molto lontano. Basando molto del suo ragionamento su questo, anche il resto lascia tante perplessità!

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