20 gennaio 2017

“Ricomincio dal BAK”. Breve intervista a Matteo Lucchetti, nominato curatore della sezione “Exhibitions & Public Programs” all’olandese Basis voor Actuele Kunst di Utrecht

 

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Nato in Italia, curriculum internazionale, il giovane curatore – anche di una sezione dell’ultima Quadriennale di Roma – Matteo Lucchetti (foto di Francesco D’Amore), torna non tanto “a casa”, ma sul luogo dove aveva iniziato la sua carriera, nel 2009, con uno stage.
Già, perché Lucchetti è stato da poco nominato curatore della sezione “Exhibitions & Public Programs” all’olandese Basis voor Actuele Kunst (BAK), centro per l’arte contemporanea di Utrecht. Gli abbiamo rivolto le nostre tre domande, per saperne di più. 
Come si è concretizzato questo tuo ritorno ufficiale al BAK, dove avevi fatto uno stage anni fa?
«Negli anni passati il dialogo con l’istituzione è rimasto idealmente aperto tramite una serie di artisti con cui ho lavorato e che hanno preso parte a vari programmi del BAK: tra questi Nastio Mosquito, Nicoline Van Harskamp o Jonas Staal. La direttrice, Maria Hlavajova, è venuta a vedere la personale siciliana che ho curato di Staal la scorsa primavera e al suo ritorno è arrivato il suo invito a cominciare i primi colloqui per discutere questa collaborazione, che si è concretizzata soltanto in Settembre con la conferma del governo sui fondi richiesti per i prossimi quattro anni e ufficializzata in questa settimana con l’inizio del 2017».
Vivi da molto tempo all’estero, ma sei stato curatore di una delle sezioni dell’ultima Quadriennale. L’Italia dell’arte è spacciata?
«Assolutamente no. Vivo all’estero dal 2009 ma quest’anno appena passato ho potuto realizzare alcuni progetti per me di grande importanza e sono avvenuti tutti in Italia: un musical di Marinella Senatore che ha coinvolto oltre duecento modicani;  la sopracitata prima mostra italiana di Jonas Staal con la collaborazione degli anarchici ragusani di Sicilia libertaria per un programma pubblico sul confederalismo democratico curdo e la loro idea di arte; e infine una mostra come “De Rerum Rurale” di cui vado particolarmente fiero, poiché ha fatto il punto su una scena artistica italiana socialmente impegnata, che raramente viene messa in evidenza in contesti istituzionali. Tutto questo è avvenuto in Italia. I primi due eventi in una galleria/kunsthalle (come mi piace definirla scherzando con i suoi due direttori) che si chiama La Veronica e che crede nel territorio in cui si trova e lo tratta con la cura che si dedicherebbe ad una grande capitale europea. Il terzo è ovviamente la mia sezione alla Quadriennale 2016. Vorrei spendere due parole per chi non ha colto l’importanza di questo ritorno, talvolta per snobismo o perché è sempre meglio disfare che fare la fatica di comprendere. Questa edizione si è riappropriata di un contenitore che l’arte contemporanea italiana non aveva più a disposizione e l’ha fatto partendo dal riconoscimento del lavoro curatoriale italiano, ormai sempre più apprezzato all’estero, e declinando per eterogeneità il racconto sugli “altri tempi e altri miti”, di Tondelliana memoria, degli artisti contemporanei italiani. Sono dieci storie, diverse per stile, esiti, contenuti, approcci e direzioni, ma congiuntamente hanno mostrato un panorama accurato e appassionato di ciò che sta succedendo in Italia. Ricordo inoltre che dal 2010 dirigo, con la mia collega Judith Wielander, un progetto ormai di rilievo internazionale che si chiama Visible e che collabora con musei prestigiosi quali Tate Liverpool, Van Abbemuseum o il Queens Museum. Tutto questo grazie al supporto e alle energie di due Fondazioni italiane, Cittadellarte – Fondazione Pistoletto e Fondazione Zegna. L’Italia dell’arte non è spacciata, ma deve imparare a fare sistema, affrancarsi dalle manipolazioni della politica quando si presentano e insegnare a quest’ultima a ricomporre un sistema di valorizzazione efficace e puntuale, evitando tutto ciò che soffoca le progettualità di lungo termine di qualità e calibrate su esigenze, aspirazioni e desideri di chi le scrive».
Il BAK avrà fondi sia per il programma espositivo, sia per le Borse. Credi che oggi le mostre debbano essere create assolutamente “site specific”, ovvero a partire da un serrato dialogo con l’istituzione (e la sua mission) e la comunità locale?
«Mi piacerebbe pensare che le istituzioni possano aiutare a costruire nuovi ponti che mettano in una comunicazione più diretta ed emancipativa i nuovi immaginari concepiti e praticati dagli artisti e coloro che si occupano di politica, sia in forma parlamentare che non. La mostra è un’esperienza importante, ancora primaria, ma che può rappresentare momenti diversi all’interno dei processi che costituiscono la pratica dell’artista. Se per una galleria il prodotto finale è la parte più importante, non è detto che così debba essere per un’istituzione. Credo sia importante che gli artisti e i curatori riscoprano il loro essere cittadini oltre che membri di una comunità artistica. Le logiche di produzione artistica legate alla sfera commerciale, che inevitabilmente devono essere tenute in considerazione, possono essere diversificate in molti modi e contraddette nel loro essere l’unico viatico per l’esistenza della ricerca artistica. Sono gli artisti stessi che da decenni sperimentano con il format dell’istituzione. Basti pensare nel campo della pedagogia alla Free International University di Beuys alla Silent University di Ahmet Ögüt, passando per la School of Narrative Dance della nostra Senatore (ma l’elenco sarebbe interminabile) e all’anacronismo di molti dipartimenti educazione dei musei di mezzo mondo. Trovo che le istituzioni siano obbligate a ripensare le loro mission e strategie in dialogo con i propri pubblici, che sono la comunità locale, certo, ma anche quella internazionale, oppure chi frequenterà lo spazio una volta soltanto di persona ma continuerà a seguire ciò che verrà proposto online, e, ancora, la comunità di artisti e curatori che animano il dibattito di ogni scena e che potrebbero, beneficiando di borse e supporto, portare avanti lavori che pochissime realtà commerciali sarebbero interessate a seguire. Nel caso del BAK le fellowship sono pensate per offrire un tempo di scambio con altri professionisti e delle risorse che permettano alle nuove produzioni e a percorsi inaspettati di prendere forma. Il tempo della formazione per un artista dura una vita e questa nuova forma di sostegno rompe con gli schemi rigidi e generazionali che privano spesso artisti già affermati di avere gli spazi e i tempi giusti per dedicarsi a nuove sfide nel loro lavoro».

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