21 febbraio 2017

Il funerale di Kounellis

 
L’ultimo saluto e qualche pensiero a margine

di

«Vedi che non bisogna morire? Se io dovessi morire, tu fai causa al responsabile». Maurizio Mochetti non approva quello che dice il sacerdote: «Ma perché, ora ci vogliono far credere che Gianni stava sempre in mezzo ai preti?». Marina Paris, accanto a lui, è la destinataria di queste parole. Nonostante la circostanza penosa, è impossibile non ridacchiare, a sentirle. Solo un artista potrebbe pronunciarle in un momento del genere. E di artisti, in quella chiesa dove ieri in tanti siamo andati a rendere l’ultimo saluto a Kounellis, ce ne erano tantissimi. Della sua generazione: Paolini, Nannucci, Garutti, Paladino; più giovani: Nunzio, Pietroiusti, Pirri, Tirelli, Messina, Botta; e più giovani ancora: Piangiamore, Pietroniro, Schivardi, Raparelli e tanti, tanti altri ancora. E c’erano i critici con cui ha percorso la sua strada: Germano Celant e Bruno Corà, c’erano curatori, direttori di musei, galleristi, collezionisti, amici, il popolo dell’arte tutto, sorprendentemente numeroso, arrivato a Roma da Roma, dall’Italia e da fuori Italia. 
Sembrava veramente che lo stessimo abbracciando tutti, per tenerlo ancora accanto a noi, almeno questa era la volontà. Poi forse qualcosa è mancato. Qualcosa, tutta quella energia presente e commossa non sono state alla sua altezza, all’altezza della sua forza morale e, direi, della sua forza fisica, di quel padre che è mancato. Un padre dell’arte, un uomo che con la sua visione ci ha insegnato quanto può essere rivoluzionaria l’arte, quella che fa intelligentemente tesoro del passato per guardare con occhio lucido il presente, e trasformarlo. Anche se, come ha ricordato Corà, Kounellis non pensava che un artista debba essere un “innovatore”. 
Gianni, “pittore moderno” e quindi “uomo antico” come diceva lui, il passato se lo portava con sé, con il suo carbone e la sua iuta, gli abiti vecchi, la sua poesia, la sua incredibile capacità di visione. Il suo piglio severo e semplice allo stesso tempo, proprio dei grandi che non hanno bisogno di dimostrare di essere tali, perché lo sono e basta. 
Pensavo, tra quella folla assiepata in chiesa e quell’altra che non era riuscita ad entrarvi, che Kounellis era riuscito a compiere il suo ultimo miracolo. Per una mattina aveva unito tutta questa gente, che a volte nutre una certa diffidenza reciproca, che a volte è poco coraggiosa. Ecco, per un attimo ci aveva reso tutti un po’ più generosi, ricordandosi della sua generosità.
Pensavo anche, però, chi degli artisti presenti, dei più giovani, potesse raccoglierne il testimone, semmai si possa veramente fare qualcosa di simile. Scomparso lui, come sono scomparse nel giro di un anno persone che hanno dato “lustro alla patria”, come si usa dire, ma una volta tanto senza retorica: Umberto Eco, appena un anno fa, e poi Valentino Zeichen, Tullio de Mauro, Emilio Prini, chi è in grado oggi di fare arte con un pensiero forte o, al contrario ma è più o meno la stessa cosa, pensare con un’arte povera. A chi, insomma, si può guardare per imparare qualcosa. E la risposta, temo, non c’è. 
È piuttosto triste, oltre che sciocco, essere passatisti, ma il terreno secco, mal concimato di oggi, non promette nulla di buono. Questa, forse, è la mancanza più pungente della morte di un artista come Kounellis, in grado di esercitare un pensiero sul mondo, come quando – lo ha ricordato Ludovico Pratesi proprio su Exibart – aprì un congresso del PdS. Ma fuori da quella chiesa, mentre si salutava per l’ultima volta Gianni, quello che rimane di quel partito si stava sfasciando, dimenticando il dovere di essere partito, rappresentanza scelta, di un altro popolo, più vasto e più critico di quello che era in chiesa. 
Strano destino, quello del 20 febbraio, giorno di lutto. Una coincidenza che non sarebbe piaciuta all’artista capace di fare della memoria un atto del presente, che alimentava il presente con un umanesimo irriducibile, fatto anche di quel passato così simbolico e materico insieme. 
Sentirsi più soli, dopo il dolore, pone delle domande a se stessi. Tornati a casa, dopo gli applausi alla bara che esce, dopo i flash, qualche discutibile ripresa video e l’inevitabile passerella, ci si chiede se si è assunta la responsabilità di essere padri. Se si è umanisti, capaci quindi anche di insegnare qualcosa a chi viene dopo di noi. In un mondo cambiato in cui forse non ci si riconosce, ma che non si può tentare di capire.        

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