23 marzo 2017

Scompare la “luminosa militante” Mirella Bentivoglio. Ecco il ritratto di Antonello Tolve, per Exibart

 

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Instancabile promotrice di eventi e latore di una condizione – quella femminile – che negli anni Settanta del XX secolo è segnata da grandi conquiste (e riscatti) in diversi ambiti dell’arte e della vita quotidiana, Mirella Bentivoglio, al secolo Mirella Bertarelli (Klagenfurt am Wörthersee, 28 marzo 1922), rappresenta una delle voci più entusiasmanti della poesia verbovisiva italiana e di un percorso critico che trasforma l’arte in critica d’arte, in paesaggio espositivo e riflessivo, in ambiente volto a ricercare l’origine di una struttura pittopoetica, plastichelegiaca. Accanto ad una continua azione creativa sul sottosuolo del linguaggio (Filiberto Menna), sulla transemioticità, sulla tridimensionalità della grafia, sull’alterazione semantica, sugli scorrimenti del codice scrittorio e sul costante gioco enigmatico del corpo poetico, Mirella Bentivoglio ha favorito una personale e passionale attitudine teorica, un gusto critico che salta il fosso della segretezza rivelatrice per organizzare esposizioni esemplari e impaginare, «in un’ottica di condivisione» e di partecipazione, saggi visivi legati all’ambito dell’iconismo nella scrittura e del verbalismo nella pittura.
Iscritta sin dal 1948 al Sindacato Scrittori, attiva nel campo pubblicistico, membro dell’AICA (Associazione Internazionale Critici d’Arte) e idonea in Italia, dal ’68, all’insegnamento di Estetica e Storia dell’Arte nelle Accademie di Belle Arti, Bentivoglio costruisce, negli anni, una militanza luminosa, la cui luce rivela e rileva l’esigenza di mostrare un percorso sulle cose e le parole. «Dopo aver seguito un seminario di studi americani a Salisburgo nel 1959» e dopo «un lavoro monografico su Ben Shahn», scrive Ada De Pirro in un volume pubblicato da De Luca nel 1963, l’artista, con le vesti del critico e del teorico, avvia dunque un pensiero espositivo che la spinge a valutare i luoghi della parola e del libro d’artista. E proprio al libro d’artista dedica largo spazio della sua attività creativa e un capitolo teorico che la porta a coniare neologismi precisi e pungenti (librismo, nasce, ad esempio, per indicare una struttura libresca che si nutre di stilemi presi a prestito dalla comunicazione visiva) e a impaginare una serie di mostre – tra queste “Volùmina. Il libro oggetto rivisitato dalla donna artista del nostro secolo” (Senigallia, 1990) – che indagano l’architettura di un oggetto lirico, di un dispositivo che entra a pieno titolo nel perimetro della sperimentazione artistica contemporanea. A partire dagli anni Settanta (nel 1971 organizza a Milano, presso il Centro Tool, l’Esposizione Internazionale di Operatrici Visuali) nasce il desiderio di coinvolgere artiste italiane e straniere con lo scopo di puntare l’indice sulla creatività femminile e di organizzare discorsi esemplari. Nel 1978, proprio mentre Argan la chiama a stendere la prima voce poesia visiva per il Supplemento all’Enciclopedia Universale dell’Arte (Unedi, Fondazione Cini) Bentivoglio è chiamata a curare la mostra “Materializzazione del linguaggio” alla Biennale di Venezia. Un evento apripista che, se da una parte ufficializza il suo lavoro critico, dall’altra rappresenta – e lo è ancora oggi – il primo esempio storico, in Italia, di un’esposizione dedicata integralmente al mondo femminile e alla sua creatività: «smaterializzata in passato nella sublimità astratta della sua pubblica immagine, parallela alla sua pubblica assenza; privatamente confinata nel contatto quotidiano e esclusivo con le materie, la donna oggi pone tutta se stessa a un mondo derealizzato nei meccanismi ripetitivi», si legge nel catalogo. 
Post scriptum. “Artiste italiane tra linguaggio e immagine negli anni Sessanta e Settanta” (Ferrara, 1998), “(S)cripturae. Le scritture segrete: artiste tra linguaggio e immagine” (Padova, 2001) e la recente “Poesia visiva. La donazione di Mirella Bentivoglio al MART” (Rovereto, 2011) evidenziano questa sua passione, questa attitudine che è, ha suggerito Giorgio Caproni in tempi non sospetti, un radioso processo critico, «un modo di comprendere le cose per intelletto e per sensibilità capace di generare le più acuminate sorprese».
«Uso la parola come immagine dal 1966. E mai più di una parola per volta. Ma oggi uso quasi esclusivamente la pietra. Sono considerata, erroneamente, uno scultore, sia pure atipico; in realtà il mio lavoro si svolge, oggi come ieri, in un ambito totalmente poetico: tra linguaggio e immagine, tra linguaggio e materia, tra linguaggio e oggetto, tra linguaggio e ambiente. Ho dilatato l’uso della parola all’uso del simbolo: scelgo simboli universali, prelinguistici; matrici dei significanti, o, meglio ancora, matrici dei significati plurimi, dei significati aperti. […]. Utilizzo la forma dell’uovo come mio segno costante, emblema della vita, simbolo cosmico della perpetuità e dell’origine». (Antonello Tolve)
Foto di Dino Ignani

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