25 marzo 2017

Luce e silenzio contro i contenuti superficiali

 
Incontro con Gregorio Botta prima della sua ultima mostra romana. Che ci parla del suo lavoro e dei suoi padri putativi, gli artisti italiani, le mode del momento. E altro ancora

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Pochi giorni fa Gregorio Botta ha inaugurato “Abbi cura di me”, la sua ultima personale presso la galleria Francesca Antonini di Roma. Prima di questa mostra ci siamo incontrati nel suo studio romano, luogo unico di grande poesia nascosto nel quartiere della Magliana, continuando una conversazione iniziata già diverso tempo fa. 
Nel tuo studio, c’è un’opera di grande intensità, La Ferita, un’incisione su una lastra di cera dalla quale esce un filo d’acqua. È un lavoro di una sobrietà assoluta, sia nella scelta delle materie sia nella forma. Il messaggio sembra evidente, quello della fragilità dell’essere. Si pensa alla ferita del Cristo della pittura barocca, forse mi sbaglio, ma ho l’impressione che ne hai voluto estrarre solo il concetto, non il contenuto narrativo. Giusto? 
«C’è un altro lavoro che ha un nome religioso: l’ho chiamato Annunciazione, ma è un lavoro astratto. C’è un rettangolo pieno di pigmento verde, compresso, come una potenza che ha ancora un destino da compiere, e una coppa che deve ricevere, la Madonna. Noi veniamo di una tradizione visiva con la quale facciamo sempre i conti. A me non interessa il racconto religioso, ma il contenuto di interiorità che c’è dietro, il dialogo con una parte di sé. La parte nascosta con la quale è necessario entrare in contatto. Mi interessa una forma di spiritualità laica, priva di contenuti. Uso per esempio spesso il velo, che è un lino cerato, perché la visione è sempre una visione incompleta, perché non riesci mai a vedere tutto, c’è sempre qualcosa di celato. Sai che velare e rivelare vogliono dire la stessa cosa. Toti Scialoja, il mio maestro all’Accademia di Belle Arti, disse una volta: rivelare vuole dire rimettere il velo perché per vedere, c’è comunque bisogno di un velo. E quindi uso ogni tanto la poetica del velo. Mi mette in contatto con il mistero».  
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Si può parlare di un’arte del silenzio?
«Mi interessa un’arte che riesca a creare uno spazio che sia una zona di silenzio. Una volta l’ho chiamato pista di atterraggio estatica. C’è un’arte che cavalca il caos del nostro mondo, come quella di Jeff Koons o del secondo Damien Hirst per esempio. E ci sono invece degli artisti come il primo Anish Kapoor che hanno provato a creare una zona di introspezione, delle sonde che ti concedono di entrare, di avere una relazione con il profondo». 
Dove è nato questo tuo bisogno?
«Ci sono due posti importanti per me a Roma. Uno era l’ex-sala Burri alla GNAM che ospitava tre grandi lavori di Burri: un Cretto, un Ferro e un Cellotex. Da ragazzo andavo lì e non sapevo niente d’arte, non la capivo però mi piaceva starci. Era un luogo in cui stavo bene, uno spazio meditativo. Era una zona in cui entravi in contatto con te stesso, che ti svelava una parte di te…È così che si è sviluppato il mio tipo di lavoro. Il mio rapporto con l’arte è di necessità. Nasce da una cosa che non capivo, ma percepivo. Poi la tomba di Keats, al Cimitero acattolico di Roma. Secondo me è un’opera d’arte geniale, assolutamente contemporanea. Lui non scrive il suo nome sulla lapide, accettando prima di morire l’idea della fine, della scomparsa, della sparizione. Ha fatto scrivere solo questa frase: “Here lies One Whose Name was Writ in Water”. Il nome del poeta compare nella tomba a fianco: è quella del suo amico pittore, Joseph Severn, che muore 60 anni dopo e fa scrivere sul marmo “amico di Keats”. Quest’opera mi ha colpito molto. È un’accettazione dell’impermanenza e della fragilità del lavoro. Ed è stata l’ispirazione di molti miei lavori».
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Ti dichiari dunque figlio di Burri?
«Penso di essere figlio di molti padri. Sicuramente mi piace molto il linguaggio dell’Arte Povera come si vede nel mio lavoro o nei materiali che uso. Mi piacciono ovviamente i lavori di Kounellis, di Parmiggiani, di Calzolari o di Penone. Infatti,molte delle loro inchieste iniziali degli artisti, le chiamo inchieste perché sono proprio delle indagini sull’essere, nascono da un rapporto con lo spazio, con la natura. E un partire dal tuo stare al mondo, dal tuo essere nel mondo. È una cosa che nasce della tua fisiologia, fisica ma anche spirituale. Vengo anche da un’arte di luce. Dico sempre che dentro di me c’è una linea dell’arte che parte da Beato Angelico, passa per Rembrandt e Vermeer, poi arriva a Morandi e per Rothko. È una pittura che si interroga sulla luce, che vive di luce. Quello che Morandi dipinge è uno spazio in cui la fisicità non c’è più, la materia è fatta di pura luce. Con Rothko la luce viene fuori del quadro. È strano perché lui vedeva spesso i suoi quadri in una maniera drammatica e io non riesco a vedere il dramma. Forse lo vedo solo nei suoi ultimi lavori, ma in quasi tutti per me non c’è il dramma, c’è questa invasione di luce che va verso il mondo. Con James Turrell c’è la luce senza più il quadro. Ho anche un’altra radice, che mi spinge a scegliere sempre forme semplici, elementari, basiche quella di Klee e di Melotti. E poi c’è una scuola romana e soprattutto un timbro di colori. La luce di Roma che è di ocra, di rosso Pompei, è sempre calda».
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Ma sempre bianca…
«Anche sì, ma è un bianco sporco, caldo. Non è una luce del Nord che è tagliente e fredda. Se tu vedi tutti i quadri delle scuole romane, sia della scuola romana degli anni Quaranta e Cinquanta che di quella di San Lorenzo, sono lavori che hanno un calore nella luce che li pervade». 
Nel lavoro di Marco Tirelli, come nel tuo, si ritrova questa stessa risposta di un artista che si ritira dal mondo per dargli una risposta, quasi una reazione benedettina. Come spieghi che oggi questo tipo di arte nasca proprio a Roma o negli Abruzzi – perché si potrebbe anche citare Spalletti -, in una maniera così forte?
«Io sono molto amico di Tirelli e mi piace molto il suo lavoro. C’è una relazione di poetica, non ti dico di risultati ma di poetica, di affinità. C’è una matrice metafisica.
Viviamo in un mondo in cui siamo invasi di suoni e di immagini, con una moltiplicazione esponenziale. Dalla mattina alla sera sei pervaso da un flusso enorme di contenuti più o meno superficiali, ma forse noi italiani siamo un po’ più attrezzati degli altri a resistere a quest’onda. Abbiamo una tale stratificazione di storia nella nostra vita, nel nostro panorama visibile. Noi camminiamo dentro 2500 anni di architettura e di arte. Questa cultura visiva è dappertutto, la abiti anche inconsapevolmente, ti forma. Le forme formano. E forse ti rendono un po’ più indifferenti alla moda del momento. Ma per tornare a quest’idea del silenzio che hai sollevato, non credo che sia solo italiana, ci sono ricerche molto simili in artisti di altri mondi. Penso ai piccoli templi di Michal Rovner o al lavoro di uno come Turrell. Oppure penso a Bill Viola che è stato qui, un americano che ha messo insieme la cultura giapponese con l’amore della cultura italiana e ha creato opere meravigliose. Nella zona del silenzio, metterei anche Lawrence Carroll, uno che ha lavorato tanto in Italia, appunto!»
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Quale differenza fai tra invenzione e immaginazione?
«Invenzione viene dal latino invenio, che vuol dire trovare. Immaginazione, invece, vuole dire creare immagini, dare forma nella propria mente a qualcosa che ancora non c’è. Però, secondo Platone, non c’è grande differenza tra le due cose: noi troviamo immagini che sono già dentro di noi. E io penso che sia vero, che sia proprio così. Ho scritto una volta che l’artista è un minatore cieco: scende in un pozzo per portare alla luce quello che ancora non sa nemmeno che esiste. Eppure ne sente la chiamata. Tutto il lavoro artistico ti prepara a trovare. L’ha detto Proust: gli artisti ti insegnano a vedere una cosa che c’era, ma non avevi ancora saputo vedere. Questo è la funzione dell’arte». 
Quindi il tuo circolo d’acqua è nato perché l’avevi già dentro di te?
«Esatto! Nel romanzo Foe, Coetzee racconta come un’opera ti insegua. Per me, questo romanzo è la metafora perfetta dell’arte, dell’opera che vuole essere fatta, a tutti i costi. Dell’opera innovativa che ti convince a cambiare. Avevo già tanto lavorato tanto con la forma del cerchio. Prima era un cerchio acquarellato sulla carta di riso e poi cerato. Ma il circolo d’acqua non so da dove sia venuto. A un certo punto è apparso nella mia testa. Mi ha detto: “realizzami, realizzami”. Mi ha inseguito! Io all’inizio volevo costruire una piscina, un anello d’acqua in un prato ma non ci sono riuscito. Ero bloccato. A un certo punto ho detto: almeno me ne faccio uno piccolo in studio. Così ho costruito questo circolo in legno e ci ho fatto scorrere l’acqua. Ma non pensavo alla rifrazione dell’acqua sul muro. Un pomeriggio allo studio, grazie alla luce del tramonto, appare un cerchio di luce riflesso sulla parete. Che meraviglia! Sono stato inseguito da questo circolo per quattro, cinque mesi, e non lo volevo fare, e poi l’ho fatto quasi inconsapevolmente ed è diventato un lavoro. Che regalo che mi sono fatto!»
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E le casette, da dove nascono?
«Sono strutture elementari. Sono forme che abbiamo nella testa, sono iscritte nel nostro Dna, sono riconoscibili in qualunque parte della Terra. È come l’igloo di Mario Merz, che è l’idea stessa di capanna. Così abbiamo l’idea di casa, è dentro di noi: abbiamo un gene con la casetta dentro! La prima casetta, quella che ho fatto per Volume! era proprio quella della caverna di Platone per cui vedi solamente la riflessione che c’è sulla parete, l’immagine che proietta sul muro. Per il lavoro che ho fatto al Palatino, era la forma del tempio della Fortuna virile che c’è davanti alla Bocca della verità. È più piccola, ma le proporzioni sono le stesse. Sono caverne platoniche, sono templi laici, sono larari, sono case che ci ospitano: forme che ci rendono umani».  
Carole Blumenfeld

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