29 marzo 2017

Fino all’1.IV.2017 Hommage Mac Maja Arte Contemporanea, Roma

 

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Via di Monserrato e i suoi dintorni vanno visitati a piedi, magari partendo da quel tripudio barocco di diaspro e marmi rari della Cappella Spada nella chiesa di San Girolamo della Carità. E proseguendo, al civico 30, attende i passanti una piccola, ma preziosa mostra allestita nei locali della galleria Maja Arte Contemporanea. Negli stessi spazi, fino al 2013, è stata attiva La Nuova Galleria Campo dei Fiori, specializzata sull’arte dell’Ottocento e del primo Novecento, diretta da Lela Djokic. 
Oggi il testimone è passato a sua figlia, Daina Maja Titonel. E sulle pareti dove sono passati in rassegna dipinti di Innocenti, Fattori, Spadini, Sartorio, Prini, Balla e De Lempicka, spiccano oggi originali saggi di pittura contemporanea. 
Autori delle opere in mostra sono proprio alcuni di quegli artisti armati (utilizzando la definizione di Stefano Zecchi) per la riconquista di una posizione privilegiata della pittura. L’occasione è offerta dalla mostra “Hommage”, sei opere (cinque dipinti e una scultura) per rendere omaggio al compositore austriaco Arnold Schönberg e agli artisti Pablo Picasso, Edward Hopper, Constantin Brancusi e Francis Bacon.
In tre dipinti il tema dell’omaggio è dichiarato già nel titolo, come nell’opera di Gaetano Zampogna. Il suo omaggio a Francis Bacon colpisce dritto al cuore, sgomenta, frantuma i pensieri dell’osservatore e li disseziona. Ispirata al memorabile scatto di John Deakin, questa tela fa parte del ciclo Le macellerie a cui l’artista nativo di Scido (Reggio Calabria) sta lavorando dal 2015. Bacon stesso affermava di essere stato sempre colpito dalle immagini di mattatoi e di carne macellata: “Che altro siamo, se non potenziali carcasse?  – si domandava – Quando entro in una macelleria, mi meraviglio sempre di non essere io appeso lì, al posto dell’animale”. Zampogna non è nuovo a pratiche di “appropriazione” e “saccheggio” di opere del XX secolo, su cui si è basato il gruppo Artmedia che ha contribuito a fondare nel 1989. Ma qui ci troviamo in presenza di qualcos’altro. La sfocata e drammatica figura evocata di Francis Bacon, in bianco e nero, emerge trasfigurata, contorta, isolata, ingabbiata in una tensione centripeta dalle fitte trame di un tessuto dall’effetto damascato a fondo verde, popolato da stampe di elefanti. Con un risultato estraniante. Dirompente. Che conferisce al ritratto del celebre artista di origini irlandesi una sensibilità oscura e una drammaticità in bilico tra un’energia straripante e una disperazione cieca. È una figura scavata oltre la cortina della pelle, per estrapolarne i pensieri oscuri che sembrano essudare da tessuti, carne e dalle sue stesse ossa. In quella che assume i connotati di una figurazione “defigurata”, se non addirittura “deforme”. In un’associazione di idee che arriva a scomodare addirittura L’urlo di Munch. 
sabelle Ducrot - Variazioni, Arnold Shönberg
Sempre da un tessuto – e nel suo caso non poteva essere altrimenti –, questa volta però da tessuti turchi ricamati, e con un entroterra concettuale e simbolico dell’opera di tutt’altra matrice, si dipana il lavoro di Isabella Ducrot. La sua è una carta intelata, esposta per la prima volta nel 2008 a Roma alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna; è dedicata ad Arnold Schönberg e fa parte del ciclo Variazioni (2006-2007). L’artista partenopea, ma romana d’adozione, attraverso la sovrapposizione di pattern di matrice sia figurativa sia astratta, inscena in questo dipinto relazioni ambigue e misteriose per comporre sofisticate mappe di segni e immagini cariche di suggestioni che si prestano a molteplici e articolate letture. Sono storie che corrono parallele. In uno stile che ricalca lo “Sliding Doors” cinematografico. Da una parte appare il ritratto del noto compositore austriaco che, dal patrimonio musicale della propria terra di origine, ha attinto ispirazione e ha convertito vecchie canzoni contadine e nenie religiose in “musica colta”. Dall’altra, assemblati con la tecnica del collage, un patchwork di lacerti di carte e stoffe provenienti da terre lontane, come la Turchia. Realizzati da popoli spesso nomadi, da donne nel silenzio e nell’anonimato, questi preziosi tessuti sono sopravvissuti al tempo, conservati nelle cassapanche delle case delle periferie urbane o di quelle di campagna. E, così, sono approdati integri sulla tela della Ducrot che, con pazienza, li ha riannodati fino a tradurli in archivi plastici della memoria e del sentimento della cosiddetta “arte popolare”, refrattaria all’aggressione del conformismo, immersa in una formaldeide poetica del tutto originale e personale.
Anche il Pablo Picasso (2011) dipinto su tavola da Angelo Titonel si discosta dalla figurazione sul punto di rompersi, fatiscente e destrutturata di Zampogna. Qui non c’è alcun “collasso dell’essere” per usare un’icastica definizione di Jean Clair. In questo impressionante ritratto del genio spagnolo, l’ingrandimento da colpo di zoom della sua testa, che pare “decollata” come quella di un san Giovanni su un limbo asettico, trasmette l’intero potere e fascino del modello intento a fissare intensamente lo spettatore e a catturarlo. A una lettura superficiale, sembra di trovarsi di fronte a un negativo fotografico tradotto abilmente a colpi di pennello. A una disamina più approfondita della superficie della tavola non risultano, però, tracce significative di quei criteri di registrazione meccanica e di massificazione del ritratto fotografico quasi di tipo “schedativo-poliziesco”. Proprio nell’epoca della “selfie-mania”, infatti, la declinazione in chiave “macrocefala” di Picasso, con mano alla fronte, è provocatoria, simbolica e, soprattutto, introspettiva, volta a cogliere “l’altra faccia” del ritratto. Insomma l’altro ritratto, nascosto nel ritratto. Intellegibile seguendone la fisiognomica del volto, quasi in un processo che ricorda la discussa tecnica di Cesare Lombroso. Il modello di Titonel è penetrante, autorevole e risoluto, e fa pensare immediatamente all’uomo e all’artista perennemente diviso tra aneliti di pace e l’attrazione per una cruenta primordialità, creatore e al contempo distruttore; un talento la cui prodigiosa produzione è stata pari “solo alla sua fame di battute oscene e di donne sottomesse”, stando alla conclusione a cui sarebbe approdato il suo amico e biografo John Richardson.
Leila Vismeh, Please smile, 2014
Anche la scultrice tedesca Janine von Thüngen è interessata alla visualizzazione e allo scandaglio dell’inconscio del suo modello scolpito in vetroresina, dal titolo WasserKinder (2003). Che parte dal sonno, come pretesto per aprirsi ai sogni, alle allucinazioni, al mistero. Che corrispondono a quelli del suo neonato. Osservato per l’appunto mentre dorme. Disposto all’interno di una teca in vetro, come a ricreare una bolla amniotica di protezione. L’omaggio è chiaro. Svelato da quella boccuccia arcuata, la fronte levigata e tondeggiante, di brancusiana memoria. Il pensiero subito corre alla Musa addormentata realizzata nel 1910 dallo scultore rumeno. L’opera della von Thüngen in mostra conserva una forte purezza ed espressività della testa, porzione anatomica “mutilata” dal corpo, la cui resa formale appare ancora sufficientemente naturalistica, per quanto semplificata nella sintesi dei lineamenti del volto. La traduzione della sensazione di torpore in cui è calato il modello è magistrale. L’assenza, poi, di qualsivoglia contestualizzazione all’interno di un luogo fisico riconoscibile, accentua la dimensione onirica. Ma sembra suggerire anche che non è tanto la testa di un amato infante il vero protagonista della composizione ordita dalla scultrice tedesca. Quanto, piuttosto, la riflessione sul sonno, su quel momento in cui l’uomo esce dalla dimensione reale, per entrare in una dimensione estraniante, impenetrabile, abbondonato a una serena e poliedrica estasi sensoriale.
L’arte come citazione, omaggio e, a tratti, persino “d’après” sembrano suggerire le opere esposte. Come nel dipinto Please smile (2014) della pittrice iraniana Leila Vismeh, l’opera più camaleontica della mostra romana. Una giovane madre, forse una contadina, tiene in braccio un neonato, accanto a lei il primogenito veste un costume rosso a pois bianchi, la bocca imbronciata. Sul fondo un mare azzurro si confonde con il cielo. Con cinica freddezza, l’artista iraniana utilizza questa immagine, quasi oleografica come un santino della prima comunione, non per la sua bellezza. O per il suo potere evocativo. Ma per affrontare un tema più vasto e centrale, quello della morte. E questo avviene attraverso un gusto popolare, ottocentesco, nel quale galleggiano immagini di un vissuto familiare filtrato attraverso un sottile retrogusto di nostalgia. La vita appare risucchiata sulla tela e restituita sotto forma di presenze ectoplasmiche, ombre della memoria. Come sul set del magistrale “The Others”. Dopo il tandem arte e vita, pertanto, è il momento del binomio arte e morte, che la Vismeh condivide con una serie di artisti, da Gino De Dominicis, Vettor Pisani, Piero Manzoni, a Damien Hirst e Maurizio Cattelan.
Cesare Biasini Selvaggi
mostra visitata il 15 marzo
Dal 9 febbraio al 1 aprile 2017
Hommage
MAC Maja Arte Contemporanea
via di Monserrato 30 – 00186 Roma
info: tel. 06 68804621 cell. 3385005483 web www.majartecontemporanea.com

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