08 aprile 2017

LA VERITÀ DEL DUBBIO

 
“Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, il colossale progetto veneziano di Damien Hirst, divide gli animi. Noi vi offriamo la nostra prima lettura, con parecchie domande

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Il viaggio di Treasures from the Wreck of the Unbelievable (a cura di Elena Geuna) inizia intorno al veliero Apistos (in greco antico significa incredibile, sia nell’accezione positiva che negativa di non credibile), ma non finisce sotto le acque dell’Oceano Indiano al largo delle coste dell’Africa orientale dove il relitto avrebbe riposato per millenni con il suo inestimabile contenuto. La teca a Palazzo Grassi ne mostra una riproduzione in scala 1:32 realizzata con tecniche sofisticate, frutto delle ricerche del Centro di Archeologia Marittima dell’Università di Southampton. È lì il cuore di questa storia carica di mistero e suspense in cui la dimensione creativa di Damien Hirst (Bristol 1965, vive e lavora tra Londra e Gloucester) – che potrebbe sembrare un grande bluff – diventa l’esuberante e ambizioso progetto supportato (se non fagocitato) dal suo mecenate François Pinault. È proprio il magnate francese, patron di Palazzo Grassi – Punta della Dogana, che accoglie nei suoi spazi veneziani (per la prima volta dedicati all’opera di un solo artista) queste duecento e più “maraviglie” (alla maniera barocca) del vincitore del Turner Prize 1995 – già capofila del movimento dei YBA – Young British Artists – che a suo dire non rientrerebbero “in alcuna categoria accademica ed estetica convenzionale. Sprigionano una forza quasi mitologica e l’osservatore si trova immerso in un sentimento che oscilla incessantemente fra la perplessità e l’entusiasmo”. 
Damien Hirst, Punta della Dogana (ph Manuela De Leonardis)

Come in un gioco di specchi si rincorrono i volti e i corpi senza tempo dei protagonisti: insieme al busto del Collezionista ci sono anonimi faraoni che sfoggiano il piercing sul capezzolo, teste di unicorno, cerberi, crani di ciclopi, flessuose divinità induiste, l’intero olimpo greco-romano, i Maya, le conchiglie e le madrepore, gli orsi, gli elefanti e i serpenti, il Minotauro, Medusa, Hathor, Budda e Tadukheba, Mickey Mouse…Ecco, sì, anche il disneylandiano Topolino riemerge dagli abissi (nonché dalla matrice pop di un più riconoscibile Hirst), afferrato dalle mani amorevolmente sicure del sub nell’immagine fotografica che accompagna il racconto. 
Damien Hirst, Punta della Dogana (ph Manuela De Leonardis)

“Accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale”, scrive Jorge Luis Borges in L’Aleph, citazione opportunamente riportata nelle pagine del catalogo in cui sia Martin Bethenod, direttore di Palazzo Grassi – Punta della Dogana che la curatrice, parlano del principio di “volontaria sospensione dell’incredulità” formulato da Samuel Taylor Coleridge e delle “collezioni immaginarie” presenti in Quarto Potere di Orson Welles (ma non – rimanendo in tema – di Utz, l’entusiasmante ultimo romanzo di Bruce Chatwin). In questo grande contenitore del dubbio, con estrema serietà ci s’incammina nella storia delle civiltà, seguendone l’evoluzione attraverso i diversi manufatti ordinati e disposti nelle teche-reliquiari, lasciandosi trascinare dal fascino e dalla potenza della materia: marmo di Carrara levigatissimo, malachite, cristallo di rocca, agata, lapislazzuli, smeraldi, granito nero e naturalmente oro, argento e bronzo. Un percorso che cita anche le fasi della storia dell’arte dall’antichità, soprattutto riferendosi alle epoche felici del fertile connubio mecenate/artista, quindi Rinascimento e Manierismo fino al contemporaneo: Jacopo della Quercia, Michelangelo, Benvenuto Cellini, Brancusi e i surrealisti, Jeff Koons, Marc Quinn, Kiki Smith
Damien Hirst, Punta della Dogana (ph Manuela De Leonardis)

Ossessione e virtuosismo sono una combinazione vincente con la sfida (e lo sforzo) per raggiungere la perfezione attraverso la mimèsis e il non finito, altro tòpos. Infatti, stando alla narrativa, i tesori collezionati dal liberto Amotanius (o Cif Amotan II o Amotan) presenterebbero i segni del lungo soggiorno marino con incrostazioni di madrepore, coralli, gorgonie, spugne. Segni parzialmente lasciati sulle superfici anche dopo l’ipotetico restauro. 
Nella lunga (e complessa) gestazione di Treasures from the Wreck of the Unbelievable, durata circa un decennio, a sottolineare la dimensione poetico-evocativa sono proprio quelle opere a cui è demandato il ruolo di testimoni, ovvero la serie di lightbox che “documenterebbe” le fasi del recupero dei reperti nella profondità vitale delle acque turchesi dell’oceano. Un ulteriore riferimento alla dimensione atemporale dell’acqua che trascina nell’indefinito. 
Se la verità non è assoluta, sarà – allora – proprio tutt’oro quello che luccica?
Manuela De Leonardis

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