18 aprile 2017

La bambinaia che amava i selfie

 
Incontro con le speciali immagini di Vivian Maier, e con la sua leggendaria vita rimasta nascosta in un mucchio di scatoloni per anni. E oggi alle stelle

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Al Museo di Roma in Trastevere ecco Vivian Maier. Figura singolare, donna solitaria, risoluta, forse infelice. Certamente con una vita piena di asperità, con la separazione dei genitori che le impedì una frequentazione assidua con il padre, ma che le ha permesso invece di vivere con una parente appassionata di fotografia. 
La vita conduce ad incontri che spostano la direzione comune, sollecitano scelte difficili ma profonde. Della sua esistenza poco si sa, ma basta a capire che le difficoltà economiche, e una apparente solitudine accresciuta con la morte della madre, hanno portato questa donna ad isolarsi dal mondo, sebbene per lavoro facesse la bambinaia. Lavoro che non amava ma che svolgeva benissimo, tanto da essere chiamata Mary Poppins dai bimbi che negli anni ha allevato. Una donna che nei ritagli di tempo, con le poche possibilità date da piccole eredità familiari, ha potuto viaggiare, ma senza ricostruire luoghi attraverso le fotografie, piuttosto conservandone l’essenza, che probabilmente gli è servita quando ha deciso di mettersi dietro l’obiettivo. Nelle sue foto non troviamo, infatti, paesaggi, marine, montagne, brulle vallate, ma rappresentazioni piuttosto crude e reali di un quotidiano che Maier ha osservato nelle città dove maggiormente ha vissuto: Chicago, New York, Los Angeles. Volti, figure a tutto tondo, sguardi profondi, espressioni reali, e autoritratti. Questo il corpus della mostra, 150 fotografie, a fronte delle migliaia che la fotografa ha scattato. Una vita dedicata a questa grande passione ma che purtroppo, nonostante la possibilità di utilizzare il suo bagno privato come camera oscura, rimase solo tale. La donna infatti, nonostante il suo bulimico bisogno di scattare, di immobilizzare la traccia del vissuto intorno a lei, di lasciare una testimonianza forte di ciò che stava accadendo, non ha quasi mai visto stampate molte delle sue immagini, meno ancora in grandi formati. 
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Destino beffardo ha voluto infatti che Joon Maalof, giovane figlio di un rigattiere, comprasse ad un’asta nel 2007 un numero infinito di provini, trovati in un box (si parla di oltre duecento scatoloni). Ne stampò alcuni e per gioco, ma anche per vedere le reazioni, e le cominciò a pubblicare su Flickr, primo social di immagini ante litteram, utilizzato solamente su PC. 
Le foto suscitarono subito grande curiosità ed entusiasmo, tanto che Joon Maloof tentò disperatamente di ripercorrere a ritroso la vita di questi bauli contenenti i negativi, per poter incontrare la sconosciuta fotografa. Che purtroppo invece morì nel 2009, per un banale quanto sciocco incidente domestico. Il resto è storia, le foto divennero sempre più popolari, i social ne hanno amplificato la portata, e questa bambinaia sconosciuta e abbastanza povera per tutta la vita, oggi è una delle fotografe più famose nel mondo. Resta da capire se il clamoroso interesse per le sue fotografie sia da imputare alla storia travagliata, o se davvero trattasi di immagini nuove, interessanti, coinvolgenti. Di certo Maier è stata la paladina della street photography, che poi subito dopo la sua scoperta è diventata quasi moda. Singolare il suo approccio con la strada, con figure di persone molto normali ma con volti decisi e forti. Un racconto delle città attraverso facce, strade, avvenimenti; attraverso le rughe, la fatica, le espressioni di coraggio, di stanchezza, di astio, di rabbia. Foto bellissime e intense, che narrano un momento storico importante, che ricostruiscono pezzi della storia degli Stati Uniti. 
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Probabilmente però non è tutto questo a renderla speciale, diversa; forse la Vivian Maier più interessante ed originale sta nei suoi autoritratti, in cui si posiziona sempre davanti ad uno specchio, volgendo lo sguardo in alto. In mostra ce ne sono almeno tre, e se li si osserva con attenzione, non sono poi così differenti dai selfie tanto di moda adesso. Dobbiamo dunque guardare a questa donna come colei che per prima ha volto lo sguardo alla strada, soggetto di grandi fotografie dei nostri giorni, e che allo stesso tempo ha capito l’importanza, l’aspetto divertente e narciso di ritrarsi da sola in autonomia, sempre con la sua fedele macchina al collo. Allora sì, capiamo perché ci appare tanto straordinaria. 
Per chi volesse saperne di più, in mostra anche alcuni video realizzati da lei, e ancora – da acquistare – il film dal titolo Alla ricerca di Vivian Maier, diretto dallo stesso Maloof, che nel 2015 ha ricevuto la nomination all’Oscar per il miglior documentario. 
Sabrina Vedovotto

1 commento

  1. La separazione dei genitori l’ha portata a vivere diversi anni in francia, insieme alla mamma e alla nonna e la frequentazione non assidua col padre era anche dovuta al fatto che il padre non solo non voleva avere contatti con la famiglia ma era dedito al gioco e all’alcool e si era anche risposato.
    Al suo rientro a New York nel 1938 ha frequentato Jeanne Bertrand una delle più eminenti fotografe del Connecticut.
    Sicuramente ha dovuto affrontare diverse ristrettezze economiche, ma l’aiuto di parenti l’hanno vista intestataria di alcuni lasciti ed eredità che sicuramente le hanno consentito di poter affrontare dignitosamente alcune difficoltà: forse è un po’ azzardato dire che fosse povera, se non altro per quanto spendeva per l’acquisto delle pellicole.
    La madre, morta quando lei aveva 49 anni, non ha di certo amplificato la sua solitudine, giacché da tempo lavorava come bambinaia. E non tutti i bimbi che ha allevato la ricordano nel migliore dei modi, anzi.
    Negli anni in cui ha vissuto non si deve dimenticare il manifesto del Gruppo f/64, cui sicuramente lei ha avuto accesso e che ha abbracciato.
    Volge lo sguardo in alto perché utilizza una Rolleiflex e di conseguenza è ovvio che il suo sguardo sia verso l’alto. Per i fotografi, come del resto anche per i pittori, era abbastanza frequente farsi degli autoritratti che non possono assolutamente paragonarsi agli attuali selfie, se non altro a partire dall’intento.
    Non video ma 8mm a colori che in qualche modo ripetono quanto riprendeva negli scatti e la sua curiosità.

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