10 maggio 2017

CURATORIAL PRACTICES

 
Una visione consapevole del mondo, tra conflitti e integrazione. Dalla Biennale parla Rikke L. Jørgensen
di Camilla Boemio

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Questo anno la 57esima Biennale Arte di Venezia è caratterizzata da un imponente numero di progetti indipendenti che vanno ad esplorare gli argomenti legati alla globalizzazione, la non appartenenza nazionale, il post colonialismo ed a indicare gli scenari futuri possibili tra fiction e scienza. Andiamo a parlarne con la curatrice danese Rikke L. Jørgensen, co-fondatrice della conferenza itinerante ”Arts & Globalization”, che dal 2003 ha preso parte in diversi progetti in Danimarca, Francia e Spagna.
L’ ”Arts & Globalization Pavilion” si svolge durante la 57esima Biennale di Venezia presentando Remembering the Future, a Palazzo Rossini, un programma di conferenze e performaces tutte focalizzate sui diversi punti di globale urgenza: quale ruolo svolgono l’istituzioni d’arte nella creazione della storia? Come possiamo includere nuove voci nelle arti e nella società? Che ruolo ha l’arte oggi, e nel futuro?
«Ho invitato un gruppo di persone davvero interessanti e progressiste per riflettere sulle domande che citavi. È un padiglione internazionale nel quale non c’é un coordinamento nazionale; ma uno sviluppo dei concetti e collaborazioni attraverso le nazioni. Il programma è ospitato dal Centro Culturale Europeo, e co-organizzato dal Global Art Affairs a Venezia. Un tema centrale del programma di Remembering the Future è ripensare alla storia. In questo processo le istituzioni d’arte svolgono un ruolo cruciale. La storia dell’arte è ancora molto dominata dal punto di vista coloniale. Anche se le teorie post strutturaliste e decostruzioniste hanno avuto successo all’interno dell’accademia fin dagli anni ’60, mi sembra che questa conoscenza sia rimasta all’interno dell’enclave accademiche. Pensatori come Michel Foucault, Jacques Derrida, Roland Barthes, Edward W. Said e Gilles Deleuze ci hanno fornito degli strumenti importanti per riflettere e analizzare la struttura del potere. Questi strumenti stanno diventando molto importanti per comprendere l’ondata populista. Nell’era della globalizzazione è sempre più importante il dialogo con le persone e le culture».
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Potresti introdurci il programma? 
«Il programma di Remembering the Future, attraverso le conversazioni e le performances affronterà alcune delle domande più importanti della nostra attualità: come era ed è la storia dell’arte, chi racconta la storia – chi è il narratore – e come usiamo l’arte per elaborare le memorie collettive e i traumi? Centrale la questione postcoloniale, come nel caso del centesimo anniversario della vendita delle Indie Occidentali Danesi agli Stati Uniti, è l’ordine del giorno politico e culturale in Danimarca e nelle Isole Vergini. Alcuni dei colloqui esploreranno i capitoli dimenticati o nascosti della storia passata per capire come influenzeranno gli scenari futuri. Come influisce la sfera personale sul collettivo e viceversa? Chi ha il diritto alla storia? Il programma focalizzerà i temi del ruolo dell’arte in relazioni ai diritti umani, il genere e le questioni post coloniali. Tra le partecipazioni alle varie conferenze di ”Arts & Globalization Platform” ci saranno il critico, saggista e curatore indipendente Simon Njami. Njami é stato il curatore della 12esima Biennale di Dakar e fa parte dell’advisory board della prima Biennale di Lagos che si terrà questo anno. Poi il docente Nora Sternfeld, della Aalto University di Helsinki; Pascale Obolo regista e Editor in Chief di AFRIKADAA, e Alicia Knock la curatrice della sezione di Arte Africana al Centre Pompidou di Parigi. ”The Arts & Globalization Pavilion” inizierà i lavori con la conversazione affrontando la domanda “How Is Art History Made?” una conversazione tra me, ed il noto curatore internazionale e storico dell’arte Jean-Hubert Martin. Nel 1989, sulla scia della mostra al MOMA sul “Primitivismo”, Martincreò uno spettacolo che contrastava le pratiche etnocentriche nel mondo dell’arte contemporanea. Sarà molto interessante sentire se vede un cambiamento reale ventotto anni dopo. Tra le performance Sisyphus is a woman(Play it again Pam) di Arnaud Cohen, a quella di Jeannette Ehlers The Black Parade – let´s liberate!, già realizzata a New Orleans e a Berlino. Tra le conversazioni “Can Art change the Society? On Performance Art, Healing and Human Rights” tra il docente londinese Paul Goodwin, e l’artista Nigeriana Jelili Atiku. Jelili Atiku è stata scelta della direttrice della Biennale e la sua performance Mama say make I dey go, She dey my Back fa parte del programma della preview della Biennale di Venezia».
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Come raccontare le storie condivise, tra le frontiere nazionali, al di là dell’attuale frammentazione Europea?
«Una delle discussioni più importanti nell’ambiente delle arti, nelle università e nel mondo politico, è chi ha il diritto alla storia. Altrettanto importante è ricordare che abbiamo un futuro comune su questo pianeta. Le storie condivise attraverso le frontiere ci aiutano a ricordarci. Nell’era della globalizzazione siamo più interconnessi che mai a causa: di internet, dei media globali, delle questioni ecologiche e del trasporto aereo. Questa è una nuova situazione nella quale dobbiamo reinventare le istituzioni, i sistemi culturali e sociali. Le nostre istituzioni sono lente e conservatrici, quindi adesso annaspano nella difficoltà. Al fine di aggiornarle, dobbiamo concentrarci sull’inclusione, l’uguaglianza, l’innovazione della cultura, la collaborazione attraverso la cultura e le frontiere, l’educazione di una gioventù responsabile con abilità sociali e una coscienza verso le altre persone, l’integrazione efficace nella società dei rifugiati e dei nuovi gruppi etnici. Rappresentare solo un gruppo porterà all’insoddisfazione. La maggior parte delle persone del mondo credono nella libertà, la giustizia e la democrazia. È fondamentale adattare strategie inclusive per creare un’Europa responsabile senza guerra, terrorismo e conflitti. Dobbiamo scegliere i leader che possono creare una situazione sostenibile».
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Come la Danimarca, e le sue istituzioni culturali, stanno riflettendo in modo responsabile sul loro complesso patrimonio e la loro posizione?
«In Danimarca siamo solo all’inizio della comprensione di ciò che significa democrazia culturale e rappresentanza equa. Molte persone hanno ancora la tendenza a pensare che siamo tutti uguali ed abbiamo lo stesso patrimonio culturale. La Danimarca è un piccolo Paese, tradizionalmente con pochi accessi alla diversità culturale. È una specie di cultura tribale molto orgogliosa, ma anche molto vulnerabile al cambiamento, ad esempio al potere finanziario americano. La vulnerabilità all’influenza culturale americana e al nazionalismo della destra ha portato a un dibattito, ancora in corso, su cosa sia oggi l’identità nazionale danese. Fortunatamente per la Danimarca, nuove voci provenienti dai cittadini con genitori o nonni immigrati, hanno iniziato a sfidare la comprensione omogenea. Molte istituzioni culturali stanno cercando di lavorare con i concetti di diversità culturale, intercultura e inclusione. L’arte rimane il luogo ideale per avviare un dialogo transnazionale nel quale i diversi gruppi coinvolti possono imparare l’uno dall’altro ottenendo una sorta di illuminazione».
Inoltre, se stiamo lasciando una formazione utopica senza territorio fisico identificandosi a nessuno degli stati nazionali esistenti, dobbiamo sviluppare un nuovo schema. Ad esempio, tra gli eventi collaterali di spessore di questa Biennale di Venezia, il NSK State Pavilion aggiungerà una nuova dimensione alla ricerca, e molti altri collettivi, teorici e attivisti stanno cercando un nuovo modello senza nazioni. Cosa ne pensi?
«Sono un po ‘scettico sul termine “Utopia” in relazione alla discussione sulle diversità culturali, sulla rappresentanza equa e sul dialogo interculturale nelle arti. L’utopia comporta due elementi correlati ma contraddittori: l’aspirazione verso un mondo migliore e il riconoscimento che la sua forma viva solo nelle nostre immaginazioni. Penso l’arte e la filosofia abbiano i mezzi per esporre le norme e le gerarchie dell’ordine sociale esistente; perciò ci daranno i mezzi concettuali per inventare nuove realtà. Naturalmente lavoriamo con le fiction, la lingua e la formazione utopica nelle arti, ma l’arte ha anche i mezzi per migliorare la realtà e per cambiarla. L’arte è un modo per creare una nuova visione per il mondo».
Camilla Boemio

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