13 maggio 2017

Finalmente l’Italia ha un padiglione?

 
"Il mondo magico" ci introduce ad un’esperienza capace di sospendere, nella storia e nel presente, il nostro tempo. Indagando una trasformazione che passa per il corpo

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Finalmente l’Italia ha un padiglione. Non me ne vogliano gli invitati ai più recenti padiglioni a Venezia, la mia è una considerazione spontanea, immediata, percepita con gli occhi della mente, che nulla toglie all’arte e agli artisti italiani e alle sperimentazioni avvenute. Bastano pochi minuti passati all’interno del padiglione per comprendere di essere partecipi di una scelta agita – indipendentemente dalla condivisione su artisti o generazioni –  di un progetto curatoriale e di allestimento. Tutti elementi che ci permettono di leggere il lavoro di artisti che hanno potuto svolgere delle ricerche e dei progetti site specific o place specific. Insomma si percepisce che la macchina ha funzionato e, finalmente, senza un confronto tra maestri e allievi, senza la suddivisione dello spazio in piccoli stand fieristici, senza sovraffollamento e sovrapposizione. 
Al contrario ci si accorge di essere in un ambiente vasto restituito alla sua essenzialità e storia, dentro opere e installazioni ben cadenzate, in un percorso dalla luce al buio che non è d’effetto ma invece efficace perché capace di raccogliere e concentrare la nostra attenzione. 
A cura di Cecilia Alemani – direttrice della sezione arte della High Line di New York, con il titolo “Il mondo magico” – dal libro di Ernesto de Martino –  il padiglione italiano presenta, lo sappiamo bene, Roberto Cuoghi (Modena, 1973), Adelita Husni- Bey (Milano, 1985) e Giorgio Andreotta Calò (Venezia, 1979). Tre artisti molto diversi fra di loro per ricerche, poetiche e attitudini che compongono nel padiglione un percorso autonomo ma insieme armonico al passo del visitatore. Ma soprattutto tre lavori che, senza cedere ad una figurazione d’attualità, di cronaca o documentazione, riescono, secondo strategie del tutto personali, a restituire l’inquietudine così come il silenzio, le domande come le incertezze, la tragicità così come lo stupore del nostro tempo. Questo mondo magico è uno spazio fatto di corpi dolenti, di domande inquietanti, di sotto-sopra riflessivi dal quale si esce con la percezione del potere dell’arte che indaga la realtà con immaginazione, trasformazione, invenzione e – fors’anche –  potente magia, in qualsiasi modo la si voglia interpretare. 
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Una grande installazione fatta di marchingegni, plastiche e muffe quella che compone l’opera di Roberto Cuoghi, un video installato quello di Husni-Bey, una trasformazione dello spazio e della sua architettura quello di Andreotta Calò. Anche l’andamento di questa tripartizione di ricerche e linguaggi si presenta armonico e attuale proponendo complessità e diversità ben articolate che travasano dallo stupore all’indeterminatezza lasciando lo spazio della decompressione nel racconto centrale della più giovane Husni-Bey. Si potrebbe anche dire che percorrere il padiglione italiano significa entrare (essere compresi, non semplicemente vedere o guardare) in una trasformazione che passa per i corpi: corpi antichi che si fanno e si disfano (Cuoghi), giovani corpi che si raccontano e si interrogano (Husni-Bey), corpi che diventano ombre e risalgono una superficie inaspettata (Andreotta Calò). Dispositivi, tecnologie e pratiche antiche o recenti, così come rituali, attraverso i quali l’individuo (l’artista, noi stessi, tutti coloro che vivono questo tempo comune) cerca di governare una situazione storica complessa per rielaborare e riaffermare, senza certezza alcuna, la propria presenza nel mondo. In questa logica ogni cosmologia è possibile e si presta ad una lettura che è al tempo stesso interpretazione, partecipazione, condivisione o rifiuto dove l’artista si pone come interprete di un mondo che ogni sguardo immaginifico rende diverso.
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Roberto Cuoghi trasforma lo spazio iniziale del padiglione in una grande basilica dove si assiste alla costruzione, decostruzione ed essicazione di figure devozionali ispirate al testo medioevale Imitatio Christi che l’artista interpreta dentro ciò che definisce “un nuovo materialismo tecnologico”. L’opera è una lunga officina dove si realizzano figure del Cristo in materiale deperibile che si trasformano e rigenerano sotto i nostri occhi lungo tutto il tempo della mostra, senza mai raggiungere lo stesso risultato. La scelta caduta sulla figura del Cristo, icona globale di immediata riconoscibilità capace di determinare sentimenti contrapposti, ne è certamente un elemento di straordinaria efficacia. La sua tridimensionalità mai uguale, la natura organica, la nostra partecipazione al suo farsi, all’umidità e alla formazione di muffe che ne sono parte, la nostra deambulazione possibile tra le sue trasformazioni e la sua ostensione sulla parete di fondo dell’officina raggiungono certamente un pathos scioccante e insieme intimo. In contemporanea l’opera si inserisce perfettamente – seppure con un cambio di scala – nell’intera ricerca di Roberto Cuoghi rafforzando, qualora ve ne fosse bisogno, la sua potente e singolare visionarietà. 
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Adelita Husni-Bey, che spesso ha affrontato tematiche di genere, razza e classe a partire dall’ottica di studi anarchici, nel suo video (The Reading – La Seduta)  si concentra su un mazzo di tarocchi da lei stessa disegnati che diventano elementi liberatori per organizzare un dibattuto riflessivo ma spontaneo tra giovani ragazzi reclutati dai laboratori didattici di alcuni musei di Manhattan. I temi dell’ambiente e dello sfruttamento delle risorse, a loro volta portatori di più generali dibattiti di potere, sono traslati su un argomentare magico e intimo di cui i tarocchi sono la chiave di estrazione. Impercettibile e drammatico per la voluta indeterminatezza che ne consegue (grazie soprattutto al gioco riflessivo ottenuto con l’acqua e l’utilizzo di una grande superficie a specchio) è l’effetto raggiunto dell’opera di Andreotta Calò (Senza titolo – La Fine del Mondo). La creazione di due mondi separati, a cui si giunge per una vasta selva di ponteggi e a cui si ascende per una scalinata metallica che abitua i nostri occhi all’oscurità accesa dal riflesso, ci obbliga ad una sospensione incerta della nostra identità raggiunta attraverso uno spiazzamento spaziale. La percezione è quella di un viaggio di cui non si conosce la meta e che sollecita nella nostra mente il richiamo ad una antichissima tradizione riflessiva sulla condizione umana. Ma è anche un ritorno alle origini della nostra condizione di cui l’acqua è elemento fondamentale e di cui l’ombra ne è corredo, sia essa riflessa o perduta. Così si sale per diventare ombre passando per un mare fatto d’aria; così si riattiva la città nella quale l’artista è nato e che ogni giorno duplica le sue architetture in reali e virtuali, così si ritorna alla natura trovando la strada per il cortile che ci restituisce al tempo della Biennale. 
Una cosa è certa: il padiglione italiano di questa 57esima Biennale di Venezia ci introduce ad un’esperienza capace di sospendere, dentro la storia e il presente, il nostro tempo. Non è cosa da poco in una vasta, complessa e dibattuta competizione internazionale, e quasi quasi anche l’altisonante e dorato portale del padiglione sembra piegarsi a questo magico racconto italiano. 
Paola Tognon

Sopra e in home page: Roberto Cuoghi, Imitazione di Cristo, 2017 Installation view at Padiglione Italia Work in progress, 9 maggio 2017 57. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, Photo Marco De Scalzi e Roberto Marossi

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