29 maggio 2017

Educazione all’empatia

 
Tour tra le immagini di Santiago Sierra al PAC di Milano, in un percorso in bianco e nero che riporta l'arte nel ruolo di dispositivo sociale e politico. Per un’autonomia di giudizio

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Un senso di unanime responsabilità emerge percorrendo “Mea culpa”, la mostra dedicata a Santiago Sierra, artista portavoce di un’estetica concettuale esplicita che, prendendo forma attraverso installazioni e performance, palesa le piaghe della contemporaneità per metterne a nudo ogni controversia.  
Sempre più spesso il ruolo dell’artista contemporaneo diviene quello dell’attivista, che fa della denuncia la chiave della propria ricerca. A tal proposito le tematiche sociali predilette da Sierra sono il riflesso di una scelta, che si pone come obbiettivo quello di portare il fruitore verso un confronto disarmante per introdurlo a profonde riflessioni sull’agire umano.  
In mostra negli spazi del PAC di Milano alcuni progetti rappresentativi sviluppati dall’artista a partire dagli anni ’90 ad oggi: fotografie di performance, installazioni e video, spesso realizzati dall’artista invitando a partecipare persone appartenenti a comunità emarginate, e nei quali il comune denominatore è la protesta. Ogni opera è traccia dei numerosi spostamenti intrapresi da Sierra che, viaggiando, ha sempre tenuto vigile l’attenzione su tematiche sociopolitiche, economiche e ambientali, con l’obiettivo di denunciare ogni genere di abuso. 
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Analizzando condizioni di disagio in zone culturalmente e geograficamente differenti, ne emerge come anche il comportamento umano tenda ad essere sempre più globalizzato, portando a quelle disuguaglianze che purtroppo, seppur in differenti contesti, scaturiscono dagli stessi pregiudizi.
Una mostra che non vuole solo raccogliere lo straordinario lavoro svolto da Santiago Sierra ma, anche, un percorso che educa lo sguardo, all’empatia e all’autonomia di giudizio, spesso subordinati a un’indifferenza latente. 
Partendo dalla prima sala si viene accolti da Denti degli ultimi gitani di Ponticelli, la gigantografia in bianco e nero di tre dentature digrignate. L’opera è parte di un lavoro nato a Napoli e dedicato alla comunità rom cacciata dal campo di Ponticelli, i cui abitanti hanno posato per questi scatti. Nella stessa sala altre fotografie di due progetti messi a punto a L’Avana e Salamanca in due istituzioni dedicate all’arte. Nel primo caso alcuni giovani disoccupati e, nel secondo, alcune prostitute eroinomani, consentono di farsi tatuare sul corpo una linea in cambio di un compenso in denaro. Pagando i suoi performer l’artista acquisisce il diritto di tatuarli con un segno che li omologa non per volontà ma per necessità economica. Un gesto che rappresenta la condizione di sottomissione che la società impone, rendendo la pratica artistica motore di indagine e progetto esistenziale.
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Altre immagini testimoniano la collaborazione di Sierra con i gruppi più deboli, è il caso di Sepoltura di dieci operai, un intervento fatto a Livorno e che ha visto protagonisti dieci lavoratori senegalesi sepolti dall’artista con la sabbia di una adiacente spiaggia. Chiara metafora di uno stile di vita che grava sulla loro esistenza: la sepoltura li immobilizza come fossero statue, rivolti verso l’infinità del mare e privati d’identità.
NO, Global tour è invece l’emblema del rifiuto all’accettazione: la monumentale scultura di un NO è stata trasportata per anni sul retro di un furgone in diversi stati del mondo, a sostegno dell’utilizzo di questa parola quale diritto inalienabile all’affermazione di ogni individuo.
Ancora, due installazioni dall’estetica minimalista e rivelatrici del potere del denaro: 200 litri d’acqua del Mar Morto, un parallelepipedo trasparente contenente l’acqua di questo mare il cui livello negli ultimi anni si è abbassato drasticamente, e Pietre di Gerusalemme in un contenitore da un metro cubo. A causa dei paradossali sistemi che regolano il mercato, i materiali che compongono queste opere, che seppur dovrebbero essere impossibili da reperire, sono stati ottenuti dall’artista facendo una telefonata da Zurigo che gli ha permesso di acquistarli.
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Parola distrutta è una grande proiezione in 10 video, ognuno rappresentante differenti performance riprese in vari paesi del mondo e in cui le lettere che compongono la parola Kapitalism vengono costruite e successivamente distrutte, in una azione sovversiva.
Un’installazione ambientale, risultato di un lavoro agghiacciante, occupa il primo piano del Padiglione: ventuno moduli disposti a terra, fatti di feci trattate in modo da essere inerti, sono stati realizzati dai membri del Sulabh International, movimento indiano a sostegno dell’emancipazione dei manual scavengers, le persone che in India sono destinate a pulire le latrine manualmente. 
Prima del termine della mostra, previsto per il 4 giugno, il percorso espositivo è stato ulteriormente valorizzato con la proiezione in diretta streaming di una performance che, per l’occasione della Bienal de performance di Buenos Aires, si sta svolgendo in sequenza al Centre for Contemporary Art in Tel Aviv, al Wiener Festwochen di Vienna, alla Lisson Gallery di Londra e nella stessa Biennale argentina. Visitabile al PAC fino a domani, la performance è dedicata ad un tema estremamente attuale, quello dei profughi siriani, e sta coinvolgendo 64 persone che per una settimana leggeranno in queste istituzioni artistiche i 146mila e 308 nomi delle vittime della guerra siriana registrati sino a dicembre 2016. 
Simona Caccia

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