09 giugno 2017

dOCUMENTA 14. Tre video da non perdere a Kassel, toccando tutte le latitudini

 

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Vi convince o non vi convince questa dOCUMENTA? Ovviamente i pareri orecchiati in giro per Kassel in queste ore sono discordanti, ma come poteva essere altrimenti per una manifestazione del genere? E poi, anche volendo, l’epoca delle opinioni condivise sembra bella che morta e sepolta, e lo racconta anche il tessuto curatoriale di questa edizione della quinquennale tedesca, dove i 14 curatori guidati da Adam Szymczyk a volte non hanno unito le voci in coro. 
Bene ma non benissimo? Parlare di fallimento ci sembra ben oltre che azzardato, se non altro per la qualità di molti lavori. E così ne abbiamo scelti tre, tutti video, tra Ottoneum, Neue Galerie e Grimmwelt.
Il primo è di Amar Kanwar, artista indiano nato a New Delhi nel 1964 e a Documenta anche con Okwui Enwezor, che alla Neue Galerie presenta Such a Morning, home page, video di 84 minuti (sì, conosciamo bene la difficoltà di fermarsi per un’ora e venti davanti a un video ad una mostra, seduti su una panchina scomoda) che racconta – con una fotografia splendida – la vita di un uomo carriera che, al culmine della sua esistenza lavorativa decide di lasciare tutto per la clausura. Lì, strisciante nell’oscurità, comincia a vedere. E intorno il Subcontinente, con la sua magia e contraddizioni. 
Di linguaggio invece si parla con Susan Hiller: al Grimmwelt c’è Lost and Found, sopra, video del 2016 di trenta minuti, che continua l’attenzione dell’artista per i gruppi linguistici che, in questo caso, stanno per essere abbandonati o lo sono già stati, o stanno rinascendo. E il discorso si fa più complesso perché entra in gioco la tecnologia: livellando culture si livellano idiomi, e si decreta la morte della differenza, ma è grazie al supporto fonico che le lingue estinte, e le voci dei morti, possono tornare a vivere e a distinguersi. 
All’Ottoneum invece Khwai Samnang, cambogiano classe 1982, con Preah Kunlong (2017). Un video che racconta di confini oltre il senso canonico di linee e cartografie, ma attraverso la cultura degli indigeni Chong che, nell’ultima parte di foresta ad ovest della provincia cambogiana di Koh Kong, si servono di riti ancestrali e racconti orali per delimitare il proprio territorio. Quel che ci viene restituito è una danza quasi apotropaica “en travesti” del giovane, indossando le forme di alcuni animali – verrebbe da dire – totemici. Antropologia spicciola? Se ne vedesse più spesso, allora.  

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