14 giugno 2017

Chris Burden: una vita senza il punto

 

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L’eternità non teme lo scorrere inarrestabile del tempo, un “per sempre” che non conosce fine, un eterno saluto alla vita senza mai doversi congedare. Tale concetto appare lontano e sfuocato rispetto alla nostra realtà, alla costante corsa contro il tempo che ci sembra sempre troppo poco. No, l’infinito non appartiene all’equazione perfetta e incomprensibile della nostra vita, eccetto quando si parla di spazio, di universo, di nuove forme di vita, di nuovi pianeti, ma anche in questo caso non ci troviamo sulla terra.
Dove cercare, allora, per trovare un minimo di infinito in questo mondo? Qualcuno una volta scrisse che l’arte è la pura eternità. La poesia, come l’arte, rende eterni eroi anche i muri, lascia spazio alla bellezza per combattere le armi invincibili del tempo. 
Una vita, intensa e velocissima, che Chris Burden ha sempre voluto sfidare, ricercando nella morte un grido di rivolta, una sfida con sé stesso, per provare di essere più forte di un qualcosa che non si può decidere, non si può controllare, le cui regole sono sempre estranee. 
Chris Burden, molti anni fa, si fece sparare, inchiodare mani e piedi su un’automobile, ha preso in giro la morte con una mano e con l’altra teneva la telecamera, per rendere tutti testimoni della crudele carneficina umana reale e sotto gli occhi di tutti, quella in Vietnam, della quale non arrivavano che immagini confuse e crude dei media, piatte come lo schermo e apparentemente lontane e irreali come quelle dei film. 
Ode to Santos Dumont è il titolo del suo ultimo lavoro, ultimo respiro artistico, un ultimo “per sempre” alla sua inarrestabile corsa incontro alla vita superando la morte. Le vellutate tende del suo sipario si chiudono con un ultimo saluto che ha le forme di una candida navicella volante, sulla quale ha lavorato per dieci anni e che ora possiamo ammirare, nella sua magia, sorvolare lo spazio finito di Unlimited ad Art Basel. Un qualcosa che sembra avere la fattezza del suo spirito, della sua linfa vitale, del suo sudato impegno di una decade, del suo ultimo appuntamento con la vita. Un’istallazione a cui Burden ha dato la sua propria autonomia, la libertà di sorvolare uno spazio verso un punto fisso ed invisibile, per poi tornare indietro. Un’autonomia della durata di un quarto d’ora, che poi dopo qualche ore di riposo, ricomincia a far muovere l’aria. Un’attesa silenziosa, quella del grande pubblico internazionale della fiera, che non vede l’ora di sentire il rumore del motore in funzione e l’enorme bianca navicella che si muove indisturbata tra i quarti d’ora della sua libertà. Grazie a Gagosian. (Gaia Tirone)
fonte: artnet

1 commento

  1. Sono sempre divertenti le agiografie di alcuni perclari artisti cosiddetti contemporanei. Burden si fece sparare in gioventù perché, come affermò lui stesso, non sapeva come farsi notare. Incidentalmente detto, farsi fare da un amico un buchetto in un braccio con un calibro 22 può, come sa chi lo sa, fare meno male di una martellata su un alluce. Guardare il video per credere. Su questa operazione di marketing (definita anche “sfidare la morte per l’arte”), costruì poi una carriera di successo, strologandoci debitamente sopra. Le performance di carattere autolesionistico datavano ormai da parecchi decenni ma, come sappiamo, l’america ha un debole per le armi da fuoco, e il successo fu immediato. E’ quello stesso registro del marketing che poco tempo fa ha inspirato la campagna Diesel “Be stupid”, e funziona, nulla da dire. Grandi artisti, grandi opere.

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