17 giugno 2017

Fino al 30.VI.2017 Simone Pellegrini – Jorge Mayet, Arriaca Montoro 12, Roma

 

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Ogni passo lascia un’impronta. È il caso di affermarlo quando si tratta del lavoro articolato e maestoso di Simone Pellegrini. Intanto in riferimento agli episodi dell’arte che lo vedono protagonista, ma tanto più se si guarda al processo artistico per cui le sue grandi carte sono “stampigliate” da matrici nate su carta da spolvero poi trasferite sulla superficie dell’opera per procedimento analogico. Impronte d’arte che lascia anche sui libri che lo accompagnano in una incessante ricerca di contenuti, vergandoli con il riguardo di chi non vuole lasciarsi scappare le intuizioni.
Con l’occasione della bipersonale in corso da Montoro12 Contemporary Art a Roma, che lo vede in mostra con Jorge Mayet, lo abbiamo incontrato a Bologna, dove vive e lavora, in quanto spesso interrogarsi sulle intenzioni degli artisti accresce l’esperienza che si fa con le loro opere.
Intitolata Arriaca, l’iniziativa della Montoro12 – galleria con cui Pellegrini collabora dal 2015 – riunisce i due artisti affiancandoli con discrezione ed eleganza: i lavori a parete di Pellegrini, da Trame del 2013 all’inedita del 2017 presentata a Roma per la prima volta, interloquiscono con le sculture del cubano Mayet installate, per la maggior parte, galleggianti nell’aria in angoli attigui.
Quello che accade nelle due sale dello spazio è singolare: il rapporto tra loro tocca corde ataviche e svela una commistione iconografica di grande profondità. Tanto le affollate cosmografie di Pellegrini, quanto i minuziosi micromondi di Mayet disegnano modelli spirituali dell’ordinamento del mondo. In comune si possono osservare forme sospese nel tempo che non hanno base, e hanno ragioni per non averne: sono forme da contemplazione che dirigono l’attenzione verso la conoscenza di natura intuitiva, non radicata a un suolo in particolare ma da radicare nella psiche universale. Ebbene, infatti, il nome “Arriaca” viene simbolicamente a significare un territorio oscillante, un tempo attestato come il punto di scambio tra mondi geograficamente lontani e culturalmente distinti, oggi potremmo dire in sospeso.
 
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La mostra prende titolo proprio dalla tua ultima opera, quali le suggestioni e le scelte che ti hanno portato ad Arriaca?
«Arriaca, letteralmente “fiume di sassi”, è l’antico nome di Guadalajara. 
Un luogo come un altro che differisce nel tempo anche nel nome di Moshe de León, per quella impresa scrittoria e visionaria che è lo Zohar altrimenti detto “Libro dello Splendore”. 
La mia opera si è aperta a Oriente e la circostanza meritava di essere riconosciuta puntando su uno dei luoghi in cui l’incontro con l’Occidente si è consumato. Mi interessa questa geografia del principio, lo strano orizzonte in cui una mano fonda e decide prendendo alla sprovvista l’umanità a venire, lo stesso in cui un uomo confida i misteri dell’estraneità a una palma; un inizio tutto intero, mal distinto, carico di attesa senza che ancora se ne sia mai provato il sapore. Questo è Arriaca, un nome di prima, rotolato via. Nel limo che lo ricopre ci sono persino i monoteismi. In questa “pelle di toro tesa tra i fiumi Júcar, Guadalfeo, Sil o Pisuerga” come definì Garcia Lorca la Spagna, i figli di Isacco e di Ismaele hanno convissuto cercando un punto di equilibrio di cui ogni vestigia, ogni forma, ogni geometria reca testimonianza. L’opera è una frontiera estetica; ripropone la distanza tragica, la disposizione ad allucinare per trovarsi altrove come un esordiente. Questo “sentito sapere” ha la vaghezza di quel che non si possiede per intero, di qualcosa che secca sotto il sole della mirata parziale e così facendo tiene e poi sgretola. 
Quindi l’opera è nel suo fluire come un fiume nel deserto. Nel “come se” ci siamo sempre avvicinati per poter reggere la vista di qualcos’altro.»
Sottotitolo, non meno importante del titolo della mostra, “Ambos somos extranjeros en esta tierra” è la traccia del percorso che hai appena descritto: a proposito di estraneità, ti interessa investigare il dubbio della percezione che resta al tuo pubblico?
«Questa frase di Abd al-Rahman, emiro omayyade proveniente da Damasco e rifugiatosi a Cordoba, viene rivolta alla prima palma che egli volle importare. “Immigrante”, così egli venne definito, è lo straniero che parla ad una pianta che è termine traslato, che è ombra e ristoro per le dinastie a venire. Questo straniero poi, a pensarci bene, condivide con il poeta di Spagna la visione di una nicchia vuota, che non ospita l’angelo, non ospita la musa ma – diceva Garcia Lorca – è disertata da quel duende che non ha luogo. Una nicchia simile è il mihrab nel suo Oriente.
Il dubbio della percezione di cui tu parli è un dubbio costitutivo, uno smottamento esternato per una catastrofe privata. Un’opera è fondamentalmente una prova di niente. Tutte le parole, incluse le mie su quella che è la mia prova, non sono che la bordatura di un oggetto di attrazione che recede all’infinito.»
Alberto Dambruoso nel testo dedicato alla mostra, contenuto nel leporello edito da Baskerville per l’artista, scrive che “la convergenza tra la cultura iconica occidentale e quella aniconica islamica ed ebraica è ciò che Pellegrini ha inteso rappresentare in questo nuovo ciclo che egli stesso definisce come una ‘frontiera estetica’”.
Appare altresì piuttosto evidente che dal punto di vista morfologico, Pellegrini resti sempre fedele a se stesso, rivolto alla conoscenza attraverso la rappresentazione. I suoi simboli cifrati allo stesso modo nascondono e rivelano. 
Cristina Principale
mostra visitata il 17 maggio
Dal 17 maggio al 30 giugno 2017
Simone Pellegrini – Jorge Mayet. Arriaca. “Ambos somos extranjeros en esta tierra”
Montoro12 Contemporary Art
Via di Montoro 12, Roma 
 
Orario: da martedì a sabato 15.00-19.00; orario estivo da martedì a venerdì 15.00-19.00
Info: +39 06 68308500 
info@montoro12.it
www.m12gallery.com

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