27 giugno 2017

L’urlo dell’arte, dalla Galleria Borghese

 
Decimo anno di "Committenze Contemporanee" a vent'anni esatti dalla riapertura dello scrigno di Scipione Borghese. E Daniele Puppi dà respiro all'arte, di ogni tempo

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Se l’arte è sempre contemporanea, e il contemporaneo è in “disavanzo” perenne sul suo tempo, come scriveva Giorgio Agamben, allora Daniele Puppi alla Galleria Borghese di Roma ha concepito una mostra – non chiamatela installazione – che va oltre ogni cronologia, e tocca probabilmente le corde più recondite e allo stesso tempo vive, di ogni uomo che si relaziona all’opera. A qualsiasi opera di qualsiasi tempo, che vive nel presente. Perdonate la ripetizione, il ridondare di questi semplici termini, ma sono probabilmente necessari per entrare in “Respira”, opera che Puppi, nato a Pordenone nel 1970 e di casa nella Capitale, ha concepito proprio per la Galleria Borghese, e che da oggi è “fruibile” al pubblico.
La Galleria Borghese, come spiega la direttrice Anna Coliva, non è una semplice raccolta. Non è un museo. È un luogo dove l’arte si è fatta: è una persona. 
E le persone, come le opere, respirano. E davanti alle opere, soprattutto se trattasi di arte vera e non di decorativismo, si sobbalza.
“Gli apparati didattici che i musei utilizzano, così come i filtri di Instagram o le audioguide – ricorda Coliva – sono gli strumenti di difesa che abbiamo contro l’impatto violento e a volte doloroso, che le opere provocano sulla nostra anima, sul nostro sentire”. 
E allora il respiro, per 22 minuti esatti, cresce nelle sale al piano terra del palazzo. Si fa più sottile in alcune stanze e più affannoso in altre: sbatte sulle colonne, sui marmi del Bernini, nelle vetrate che affacciano sul Giardino, tra i muri e nelle volte affrescate. E cresce, fino ad esplodere in un urlo liberatorio sul parco, dopo aver trattenuto per un attimo il respiro con la paura, l’ansia o chissà, forse in preda a una sindrome di Stendhal degna di così tanta ricchezza e bellezza. 
Attenzione però: non si sta affatto parlando di una bellezza innocente o innocua, ma di una bellezza che va al di là dell’estetica, che si innesta come parte di un meccanismo di conoscenza e visione che tocca le corde del sublime, quel sentire che spiegò egregiamente Edmund Burke, che va oltre i canoni e ha a che fare con l’inquietudine. 
E cosa c’è di più inquietante di un grido quasi disumano in un’oasi di pace come i giardini di villa Borghese, che fuoriesce inaspettato dal suo stesso simbolo? I visitatori ne risponderanno, forse, con un po’ di ansia. Quella stessa ansietà che contraddistingue il passo, continuo, dell’arte. Quella stessa ansia, quello stesso sentimento di sopraffazione che Puppi ci racconta di aver avvertito mentre studiava come intervenire dentro la Galleria. Uno spazio troppo denso per lasciarvi un segnale minimo, troppo connotato da “usare” con rispetto: e allora l’ansia, il “rumore” dell’arte si sbatte fuori dalla porta, si grida forsennatamente dopo aver rimuginato dentro. 
Una mostra per non appiattirsi all’abitudine, per non cedere all’anestesia che, di fronte all’arte, ci vuole scolaretti modello. E per rispetto, ribadiamolo, della stessa arte: non un orpello ma una rivoluzione, non un confronto continuo tra antico e contemporaneo, per cercare afferenze rassicuranti e sbiadite quanto anonime. 
Non un disegnino ma una dichiarazione di intenti, anche belligeranti; non una tranquilla passeggiata nel verde ma un campo minato di storia e tensioni. 
Questa è l’arte. E, insieme a Puppi, lo vogliamo urlare. (MB) 

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