27 giugno 2017

“Quest’arte arte preferisco non capirla”. Cosenza si infiamma per la mostra di Dario Agrimi

 

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Fino a dove la sperimentazione artistica può spingersi? Vexata quaestio di difficile soluzione, forse impossibile, il più delle volte adombrata dalla censura o anche solo dalla sua presunzione ma sempre e comunque sgradevole. Risposta ardua, intrinsecamente legata alla sensibilità di ciascuno, alle soglie di percezione e tolleranza che inevitabilmente variano da individuo a individuo. Un tema che riguarda l’arte a tutti i livelli, in linea sincronica e diacronica, che in questi giorni sconvolge la scena artistica cosentina, dove il tranese Dario Agrimi, da sempre a suo agio con trovate ironiche e sensazionali, destabilizza il pubblico con una delle sue opere più celebri, Non dice chi è, un inquietante panno nero sospeso a mezz’aria da cui fuoriescono due piedi a simulare una figura impiccata. Una lettura errata, frutto di un’occhiata fugace, che manifesta tutta la sua inefficacia nel constatare l’assenza di qualunque cappio. Ma tanto basta e lo scandalo è servito. 
La scultura è in realtà una riflessione sulla figura di Lucifero, l’angelo caduto, che ora tenta la redenzione, la risalita, la riconciliazione in un messaggio che è individuale e collettivo, sociale e non religioso, rifuggendo dalla retorica della forma bella e rispettosa. Ma dalla sua prima apparizione negli spazi della Galleria Ellebi, ha scatenato accese polemiche su quotidiani e social network, con interpretazioni varie di addetti ai lavori, sempre prodighi di dettagli e spiegazioni, e tanti, tantissimi, almeno a giudicare dai commenti comparsi su svariati post, malcapitati spettatori. A lamentarsi sono in molti, adducendo motivazioni tra le più disparate, dal bambino spaventato alla liceità di esibire un’immagine cruenta (che cruenta in verità non è) in tempi di tragedie collettive, fino all’immancabile «se questa è arte preferisco non capirci nulla!». 
Eppure, in un’epoca di disinteresse sociale dilagante e di (dis)informazione condivisa, la vicenda calabrese dimostra che l’arte può ancora fungere da volano per dibattiti e pubbliche considerazioni, nel bene e nel male, trasformando gli spettatori in parte attiva. Nel capoluogo silano, proprio i più accaniti detrattori dell’opera si stanno trasformando, loro malgrado, nel traguardo più importante dell’operazione, dando luogo a discussioni sul significato delle immagini e sul valore dell’arte. Il pubblico, specialmente quello contrario, è la riuscita massima dell’artista, inizio e fine del suo operare, che passa così dal solipsismo alla condivisione, dalla pura contemplazione alla relazione. Obiettivo che in realtà costituisce una costante della ricerca di Agrimi, che del paradosso e dello sgomento ha fatto una vera e propria cifra stilistica. Le sue opere, infatti, non lasciano mai indifferenti, pretendono una risposta, una presa di posizione, prevista o no dall’artista che ogni volta si compiace di scatenare la rivolta e di amplificarla, poi, sulla piazza mediatica. 
E in questo suo modus agendi, Cosenza ancora una volta ha offerto terreno fertile, proprio come quando, nel 2011, al museo di Rende la sua opera Ilcriminenonpaga, una gazza ladra imbalsamata, fu accompagnata dallo sdegno di qualche animalista o ancora quando la lezione e la coda, esposte nella collettiva “Open Space. La dimensione umana del contemporaneo” a Palazzo Arnone, determinarono l’insorgere di un aspro risentimento da parte di non pochi benpensanti, che addirittura arrivarono a chiamare in causa presunte offese alla “religione di Stato”. (Carmelo Cipriani)

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