27 giugno 2017

La moderna luce di Tobey

 
Un'ampia retrospettiva alla Collezione Guggenheim di Venezia per riscoprire il pittore-eremita di Seattle, misconosciuto pioniere dell'Espressionismo Astratto

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Mark Tobey, il più ascetico ed indipendente degli Espressionisti Astratti americani, è oggi protagonista di una retrospettiva alla Peggy Guggenheim di Venezia. L’eremita di Seattle torna in laguna dove alla Biennale nel 1958 si era aggiudicato il Premio città di Venezia per la Pittura. In quel frangente decisivo era stato anche l’incontro con le monumentali opere di Rothko che a Venezia erano esposte, determinanti nel rinnovare le proporzione della sua produzione pittorica. Ciò rende ancor più simbolica questa mostra – un percorso in 66 opere realizzate dagli anni Venti ai primi Settanta e visibile fino al 10 settembre prossimo nella barchessa di Ca’ Venier dei Leoni – per riscoprire ed apprezzare a pieno la figura di questo pioniere nell’Astrazione statunitense.
La fortuna critica di Mark Tobey ha avuto infatti sorti alterne e alterne vicende. Se in Italia ricordiamo il poco lusinghiero giudizio di Roberto Longhi – che aveva liquidato la produzione dell’americano apostrofandola come “pastina in brodo” – negli USA il rapporto più controverso è stato certamente quello con Clement Greenberg, nume tutelare dell’Action Painting. Pur riconoscendo la qualità intrinseca delle opere di Tobey, il critico Greenberg si attesta su posizione decisamente tiepide, di fatto misconoscendo la portata innovativa del suo lavoro, nonché il suo reale contributo allo sviluppo del modernismo americano. Greenberg non amava in particolare la meditata lucidità della prassi artistica di Tobey, lontana dall’automatismo irrazionale degli esponenti della Scuola di New York, Pollock in primis. 
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Il vuoto divora l’era del gadget, 1942, Tempera su pannello
Infelice e poco fortunato è proprio il confronto con Jackson Pollock a cui fin dall’inizio Tobey viene avvicinato per un’affinità – vera o presunta – negli esiti formali delle loro opere. Affiancamento che rappresenta di fatto un appiattimento. Le differenze con l’irascibile dripper sono inequivocabili. A separarli non c’è solo un’intera generazione, ma diverso è il coinvolgimento nella scena americana e l’impegno per la costruzione di una pittura autoctona, urgenza che Tobey non ha mai sentito come propria. Ma è soprattutto nella prassi creativa che la distanza tra i due si fa abissale. La natura meditabonda di Tobey, le premesse stesse al suo approccio creativo, sono decisamente opposte a quelle di Pollock. Tobey non ne condivide né il furore gestuale, né l’atteggiamento iconoclasta verso la pittura. Fino agli anni Sessanta, il pittore realizza quadri da cavalletto di piccolo formato, che niente hanno a che fare con la monumentalità delle tele posate a terra e sgocciolate del collega più giovane. Ed anche quando passa a superfici di più ampio respiro, l’intimismo prevale.  
La ricerca di un linguaggio attuale, capace di esprimere le sfide della modernità, si scontra inoltre in Tobey con l’impossibilità di emanciparsi del tutto dalla realtà. La deriva nell’astrazione o nel materico si compie assai lentamente. I segni di Tobey sono sublimazione, trascendimento, ma mai rottura con il dato reale. La resa dello spazio e dei volumi, oltre la tradizione figurativa occidentale, sono del resto all’origine della sua ricerca estetica.
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Cammino della storia, 1964, guazzo e acquerello su carta
Pressoché autodidatta, Tobey esordisce relativamente tardi nel mondo dell’arte, costretto da esigenze di sussistenza a lavorare a lungo nel campo della grafica pubblicitaria come illustratore e ritrattista, tra Chicago e New York. Alle soglie degli anni Trenta, una crescente insofferenza si fa via via strada, trasformandosi in urgenza di “spezzare” e “disintegrare le forme”. Un lungo soggiorno in Europa e l’incontro con le avanguardie parigine – dal Cubismo a l’École de Paris – contribuiscono all’allontanamento di Tobey dalla pittura figurale in direzione dell’astrazione. Decisivo è poi il soggiorno in Medio ed Estremo Oriente e l’incontro con l’arte calligrafica e la pittura “sumi-e”, che conducono definitivamente l’artista a nuove soluzioni linguistiche. Con gli anni Quaranta iniziano a farsi largo nei lavori di Tobey tratteggi, griglie ed altri inconfondibili segni geroglifici nel caratteristico colore bianco. É la cosiddetta “white writing”, un alfabeto profuso a tutto campo fino a saturare la superficie pittorica. Evocati nelle tele di Tobey sono tanto i paesaggi rurali del Midwest, connotati di un certo tono sentimentale, quanto le dinamiche metropoli americane, pulsanti di luci e bagliori. Fino a pervenire ad una rappresentazione evanescente ed emozionale, a tratti pulviscolari. L’opera di Tobey, che Pierre Restany definì “contemplazione in azione”, è sintesi di trascendenza ed immanenza, in equilibrio tra natura e artificio, imbevuta di filosofia zen e religiosità Baha’i. 
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Senza titolo, 1944, tempera su carta
Ben due lustri sono stati necessari alla curatrice della mostra, Debra Bricker Balken, per dare corpo a questo intenso progetto, realizzato da Guggenheim Foundation in stretta collaborazione con la Addison Gallery of American Art, e presentato in esclusiva assoluta in Italia, prima di raggiungere gli States il prossimo novembre. Ma “Mark Tobey. Luce Filante” è anche l’ultima mostra dell’era Rylands. Proprio con questa esposizione lo storico direttore si è di fatto congedato da Venezia dopo 17 anni, passando il testimone a Karole Vail, pronipote di Peggy, alla guida della collezione dal 9 giugno scorso.
Giada Centazzo

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