30 giugno 2017

Gli anni ’70. Amore forever

 
Da Alviani a Rotella passando per tutti i Poveristi. Un'altra mostra sugli anni '70? Sì, ma poco male. Perché, per fortuna, siamo ancora innamorati degli "originali"

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La febbre non accenna a fermarsi, anzi. Resta a una temperatura alta, costante. Sono anni che li amiamo, sono anni che forse – secondo alcuni, e senza tutti i torti – hanno “rovinato” le nuove generazioni che hanno, e stanno, cercando di imitarli, reiventarli, riapprorsene, riproporli.
Che cosa sono? Gli anni ’70! I ruggenti anni ’70, i magnifici ’70, mischiati di piombo e pecoreccio, di femminismo e di icone della televisione e del cinema disimpegnato, di lotte sociali e di caroselli, raccontate da Vezzoli attraverso la televisione da Prada, ri-raccontati da una serie di mostre dedicate all’Arte Povera che si sono susseguite in lungo e in largo per la penisola nel corso dell’ultimo lustro, e oggi riproposti in una mostra – in collaborazione con la galleria Monti di Ancona – a Palazzo Bisaccioni, nel centro storico di Jesi. Ecco “La densità del vuoto. Gli anni ’70 dell’Arte”, esposizione dedicata proprio a quel decennio che ha cambiato radicalmente il modo di concepire l’arte, in Italia e non solo. E non solo l’arte.
Alviani, Calzolari, Ceroli, Pistoletto, Vautier, Rotella, Prini, Buren, Kosuth, De Domicinis, Cintoli, Bartolini, Beuys, Pisani, Boetti, Castellani, Spalletti, Zorio, Kounellis, Lewitt, Nagasawa, Ontani, Anselmo, Parmiggiani, Paolini, Mattiacci (nemmeno una quota rosa!) sono in mostra ognuno con il proprio stile, con la “povertà” che accompagna alcuni nomi, mentre qualcuno è più pittore di altri, qualcuno più performer; qualcuno – all’epoca – già strafamoso e qualcun’altro che, in quel decennio terribile e fantastico, era forse stato sottovalutato, mentre oggi vive di una continua esplosione. 
In tutti i casi, come si tende a fare con i morti, non possiamo dire che “evviva” a questi anni ’70. E non stiamo canzonando nessuno, anzi! Evviva gli anni ’70 purché siano veri e non scimmiottati dall’oggi, da quei “parallelismi” a volte poco edificanti, da quei “confronti” tra nonni e nipoti che mai e poi mai potranno replicare il lavoro degli avi. Semplicemente perché non vi sono più le condizioni né storiche, né politiche, né sociologiche e, ahinoi, forse nemmeno poetiche, svanite o quantomeno annacquatesi in una “rivoluzione informatica” dopo l’altra. 
E se tornassimo catapultati oggi negli anni ’70, provochiamo ancora, chi avrebbe quel coraggio dirompente di non uniformarsi? Chi accetterebbe un po’ di “invisibilità” a costo di portare avanti la propria ricerca? Chi si acconterebbe di creare un “vuoto” di memoria boettiana, di un “nulla da vedere nulla da nascondere”? 
Aveva da venire l’epoca “social”, e tutto si giocava in società: e allora viva quello “straordinario fermento di ricerca che ha percorso quegli anni”, come si legge nel comunicato. E allora viva tutti quegli artisti che “reiventano il linguaggio delle arti visive senza schematismi, definizioni o preconcetti, utilizzando con disinvoltura differenti tipi di tecniche e materiali, superando i tradizionali mezzi espressivi e privilegiando il processo mentale che precede l’esecuzione, nel quale l’opera è già compiuta”.
Viva gli anni ’70, densi di un vuoto esplosivo. Nel bene, e nel male. (MB)

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