07 luglio 2017

Italia all’asta e giuramento vitruviano. L’ultimo libro di Salvatore Settis presentato a Lamezia Terme

 

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Nel 138 a. C., in Sila, che allora era molto più estesa e che forniva legname e la rara “pece bruzia” a tutta l’Italia, avvenne uno scontro violentissimo. Gli schiavi che lavoravano per conto di chi aveva “vinto” l’appalto della pece, fecero fuori molti di quei notabili che difendevano il tradizionale utilizzo lento dei boschi, contrastando lo sfruttamento intensivo. Questo, che costituisce solo uno dei tanti circoli viziosi che affastellano il saggio di Salvatore Settis, è un caso tanto eclatante quanto antico di mancanza di legislazione a tutela del paesaggio e del patrimonio comune. Solo sotto Adriano, nel I secolo d. C., si andò a regolamentare l’uso delle foreste, come avvenne in Siria. 
Esempi come questi, tra contraddizioni e tensioni, ce ne sarebbero a centinaia fin dall’antichità ma non è sulla base di una lista di orrori, ecomostri, deturpazioni, rovine urbane che Settis costruisce il suo ultimo lavoro. “Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili”, presentato qualche giorno fa a Lamezia Terme, è un saggio democratico, divulgativo e in cui, sottolinea nella premessa Settis, non c’è alcun falso mito d’impronta ambientalista. Si fa semmai appello alla responsabilità di tutti e alla presunta coscienza degli architetti. 
Vero e proprio richiamo all’ordine per la responsabilità di ciascuno, la lezione, rapida e appassionata, che si è tenuta nel cortile della Biblioteca comunale del Comune calabrese, avanza alcune ipotesi molto interessanti che sfatano un’idea consunta del ruolo dell’architetto e della natura della committenza. A chi compete pensare a un progetto urbanistico- architettonico? Se esiste un giuramento di Ippocrate, non ne può esistere uno di Vitruvio? Nata per gioco, la provocazione di Settis ha avuto seguito a Reggio Emilia, che lo ha approvato sul serio. Ecco, si potrebbe continuare così e prendere a modello la città emiliana, perché oggi «siamo sull’orlo di un trauma comparabile a una guerra». Non è un caso che «la consapevolezza del proprio patrimonio culturale e paesaggistico nasce dal trauma della guerra e della sconfitta», come la Costituzione di Weimar dopo la Prima Guerra Mondiale e quella italiana dopo la Seconda. 
Ma andiamo per gradi, perché la pubblicazione di Salvatore Settis, di origini calabresi, nato a Rosarno, archeologo, storico dell’arte e laurea honoris causa in architettura, disegna per brevi capitoli una realtà molto stratificata. Emerge in particolare la necessità di chiarire alcuni punti: lo studio del paesaggio non può competere solo agli addetti ai lavori, perché il paesaggio è «teatro della democrazia» e va analizzato con uno studio comparato e multidisciplinare. Non si può più distinguere tra paesaggio, ambiente e territorio. La definizione di paesaggio è limitata perché è stata intesa finora in maniera essenzialmente estetica, non come luogo di incontri, dal punto di vista etico. Se non si esce da questo modo d’intendere si continua a svilire il paesaggio che incarna valori collettivi, a «mero mosaico di interessi individuali» e si rischia di vedere moltiplicarsi non solo le pale eoliche ovunque ma anche i casi di costruzioni di pessima qualità architettonica, come a Pienza, che profanano armonia e bellezza dei nostri territori. Quella bellezza, nella abusata citazione di Dostoevskij, che non può salvare nessuno se a volerlo non siamo noi per primi. 
Ecco che Settis riduce in polvere quella retorica frase usata come un mantra senza senso e fa appello alla sovranità del popolo, contro tutti gli abusi di potere. È un atto democratico difendere il paesaggio ma ciò non è possibile senza la conoscenza della nostra storia. Nella definizione delle responsabilità il ruolo dell’architetto è fondamentale, escludendo le operazioni egocentriche delle ultime archistar, le sue competenze possono davvero essere decisive per il vivere comune. Il suo impegno etico può contribuire al pieno esercizio dei diritti civili di una società ma la sua libertà va limitata se la figura dell’architetto non è guidata da una sana moralità, come già sosteneva Borromini. Chi ha il diritto di modificare il paesaggio? E con quali prerogative? 
La scelta non può ricadere sul governo di uno solo o di pochi. Ce lo dice una carta approvata nel 1948: la sovranità appartiene al popolo e questo può fermare i disastri in corso, se si informa e se non vuole che da difendere siano le ditte appaltatrici di pochi, come in Sila, ma il benessere e la libertà e i diritti di tutti. (Anna de Fazio Siciliano)

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