09 luglio 2017

La Biennale non è viva? Niente affatto!

 
Parla Pablo León de la Barra, curator at large del Guggenheim di New York e del Padiglione messicano, tra le persone più influenti del mondo dell’arte secondo ArtReview

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I viaggi non sono esclusivamente spostamenti nello spazio. L’esperienza ricavata nell’atto di muoversi verso “nuovi mondi” racchiude in sé punti di vista diversi che non possono indicare soltanto a una variazione di luogo. Con nostalgia, Claude Lévis-Strauss riflette su questi aspetti nelle pagine di Tristi Tropici, uno dei suoi più memorabili libri usciti nel 1955, racconto dell’esperienza vissuta durante i suoi soggiorni etnografici nel Brasile. Da questa precisazione prendiamo lo spunto per ritornare alla Biennale di Venezia e riflettere su questa sorta di pellegrinaggio –anche nella sua accezione devozionale– che ogni due anni raduna artisti, curatori, giornalisti e curiosi. Prendendo in prestito le parole dell’antropologo francese sembrerebbe auspicabile, per qualsiasi viaggio reale o immaginario che sia – un’esplorazione a diverse dimensioni – per passare dalla cronaca al pensiero critico. Questo approccio si rivela cruciale nel mondo dell’arte che «Tende a consumare molto voracemente le cose senza darsi il tempo di riflettere», come segnala Pablo León de la Barra, curator at large Latin America del Guggenheim Museum di New York e del Padiglione Messico a Venezia.
Come di consuetudine, la manifestazione veneziana ha causato interpretazioni e giudizi molto contrastanti in Italia come all’estero, scoprendo a volte una propensione etnocentrica al posto di un viaggio a molteplici dimensioni. Il filo conduttore di queste opinioni è variegato: dalle accuse di estetizzazione del dramma, agli eccessi di impegno politico, dalla mancanza di pittura alla sovrabbondanza del tessuto. Detto questo, che la discussione sia partita è già un elemento di successo. C’è poi sicuramente la necessità di andare oltre le prime impressioni per approfittare della grande opportunità che offre l’appuntamento dell’arte per antonomasia.
«La Biennale si sente viva e spinge a farsi delle domande», dice León de la Barra, una delle persone più influenti del mondo dell’arte contemporanea secondo la rivista ArtReview. È soltanto l’inizio della nostra conversazione tra i padiglioni nazionali dell’Arsenale in una mattinata calma, prima ancora che i visitatori siano folla. Da qui parte un dialogo che offre chiavi di lettura originali per riscoprire la 57esima esposizione internazionale d’arte.
Padiglione Messico, foto di Lorenza Cini

Padiglione Messico, foto di Lorenza Cini
Quale impronta ti ha lasciato la Biennale?
«Credo che Christine Macel abbia fatto un ottimo lavoro. La Biennale si sente viva, spinge a farsi delle domande. Specialmente all’Arsenale c’è una grande attenzione ad altre forme di essere e di fare società. C’è un vero e proprio recupero di altre conoscenze e “cosmovisioni”. Credo che la Biennale funzioni soprattutto in questo senso: l’artista come catalizzatore, come fonte di pensiero attraverso le arti. In effetti, l’ingresso all’Arsenale è fondamentale. Si apre con l’opera di Juan Downey [Santiago de Cile, 1940 – 1993, New York], pioniere della video arte che negli anni Settanta è stato in Amazzonia con una delle prime video camere, una Portapak, e che ha lavorato molto con i Yanomami. Nello stesso spazio troviamo l’opera di Rasheed Araeen [Karachi, 1935], artista nato in Pakistan e vissuto a Londra per molti anni, fondatore della rivista “Third Text”, una pubblicazione molto rilevante nel pensiero sull’arte e la cultura nei Paesi non europei. Questi due lavori dialogano mettendo a confronto il pensiero indigeno di fronte a un pensiero più razionale. Sono due artisti della stessa generazione che sono stati un po’ al margine delle storie ufficiali – almeno fino adesso. Ci sono molte opere per continuare a riflettere, soprattutto all’Arsenale.
Quali sono le tue riflessioni riguardo alla proposta di mettere al centro l’arte e gli artisti?
«È interessante perché si tratta di sottolineare la figura dell’artista, ma non come ego, piuttosto come generatore e inventore, come qualcuno che propone modi alternativi di esistere e di ricuperare altri modi di conoscenza. Questo aspetto è molto avvincente ed è anche per questo che l’arte si sente viva».
Rashid Araeen, Viva Arte Viva, Arsenale 57ma Biennale di Venezia

Rashid Araeen, Viva Arte Viva, Arsenale 57ma Biennale di Venezia
Credi che ci siano altre manifestazioni d’arte in cui la voce dell’artista è messa in disparte oppure opacizzata da altri rumori?
«A volte ai curatori viene criticato il fatto di strumentalizzare gli artisti per costruire una specie di tesi. Anche in questa Biennale c’è una visione molto chiara di ciò che dovrebbe essere l’arte per la curatrice. Ma anche se questo succede è a partire da un constante dialogo con gli artisti che nascono le proposte curatoriali. Affermare che il curatore si sovrappone alla voce dell’artista è in certo modo una semplificazione tanto del ruolo dell’uno come dell’altro. Si tratta in realtà di un ecosistema complesso di collaborazione e complicità. In questa Biennale infatti si intravede un lavoro di molti anni tra Macel e alcuni artisti come Raymond Hains».
Questa Biennale dà maggiore spazio ad artisti che sono rimasti fuori dai circuiti di maggiore visibilità?
«Direi di sì, ma si deve essere molto cauti in queste affermazioni perché il mondo dell’arte tende a consumare molto voracemente le cose senza darsi il tempo di riflettere. In questo senso credo che questa Biennale riveli l’ampio sguardo di Macel. Ci sono artisti affermati come Gabriel Orozco, Ernesto Neto, Philippe Parreno, ma ci sono anche artisti emergenti tra cui la messicana Cynthia Gutiérrez, Marcos Ávila Forero – colombiano che vive in Francia – oppure il lavoro di Ayrson Heráclito – nato a Salvador di Bahia e che vive e lavora a Rio de Janeiro e San Paolo. Sono anche presenti molte figure di grandissima importanza che fino adesso non avevano avuto riconoscimento per il lavoro svolto. È il caso di David Medalla, Hassan Sharif, Sheila Hicks ovvero Zilia Sánchez».
Ernesto Neto, Um Sagrado Lugar (A Sacred Place), 2017, mixed media, dimensions variable, installation view, Arsenale, 57th Venice Biennale. Courtesy: La Biennale di Venezia; photograph: Andrea Avezzù

Ernesto Neto, Um Sagrado Lugar (A Sacred Place), 2017, mixed media, dimensions variable, installation view, Arsenale, 57th Venice Biennale. Courtesy: La Biennale di Venezia; photograph: Andrea Avezzù

Come definiresti la tua pratica curatoriale?
«Il mio lavoro non è convenzionale. Sono arrivato nel campo delle arti attraverso un cammino trasversale, dall’architettura e dagli studi sull’urbanistica, per iniziare più tardi il mio percorso come curatore sviluppando progetti espositivi. Fare mostre è quasi come scrivere, come dare alla luce un saggio. In ogni mostra si intrecciano diversi aspetti che spaziano dall’intellettuale al sensoriale, dove c’è un incontro con l’opera non accademico. A questo proposito direi che c’è una forma di trasmissione delle conoscenze che va oltre la lettura e la ragione. Questo tema mi interessa particolarmente ed è molto presente nel lavoro di Carlos Amorales nel Padiglione Messico. Con il suo progetto “Life in the Folds”, Amorales riesce a trasformare problematiche contemporanee – che riguardano l’altro, la differenza, il modo in cui la società respinge ciò che è diverso da sé – in linguaggio visivo, simbolico. È quasi come se lavorasse in uno stato di trance, un’atmosfera che avvolge anche lo spettatore a un livello quasi inconscio».
Ana Laura Espósito

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