28 luglio 2017

Parigi val bene. Sempre

 
Prima puntata di un reportage da una città da attraversare seguendo mostre, con Olga Picasso e Rodin, passando per la “febbre d'Africa”, in attesa della nuova stagione

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Anche sul piano del temporaneo, l’offerta parigina è ottima e non solo sul piano del numero e della qualità ma anche sul piano del coordinamento istituzionale e dell’innovazione metodologica. Parafrasando il titolo di una delle mostre in corso, potrebbe coniarsi la definizione “Paris des routes”, tale la ragnatela di percorsi che attraversa l’intera città in cui ritrovi personaggi, concetti, idee dell’arte e culture distanti che si incontrano.  
Il Musée Picasso (fino al 3 settembre) allestisce la mostra “Olga Picasso” (unico appunto è che un titolo così potrebbe far pensare a un omaggio alla donna come artista riscoperta e invece il protagonista è lui, sempre lui!) con materiali prevalentemente del museo ma organizzati con un filo narrativo nel quale, con buona pace di Proust, arte e vita privata si mescolano e sovrappongono offrendo un contributo conoscitivo di grande rilievo. La vita di coppia, la paternità e la maternità, le crisi e i tradimenti traspaiono come fossero manoscritti nelle sue opere disegni, oli, oggetti, foto e filmati, costumi. Una storia d’amore vissuta in una successione di luoghi e di città, in appartamenti/studi, ville di vacanza che sono soprattutto i laboratori e le sale di esposizione dei lavori dell’artista che riportano le suggestioni dei luoghi e dei paesaggi dell’intorno come gli umori e i sentimenti di ciascuna fase di quella storia dalla conoscenza nel 1917 alla rottura dell’inizio degli anni trenta.
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Olga Picasso, vista della mostra, Museo Picasso de Paris
Al Quai de Branly si può visitare l’”Afrique des routes” il prequel della mostra “Art Afrique” che era in procinto di aprire alla Fondation Vuitton. Molto didattica e un po’ autoflagellante sulle responsabilità dei trascorsi coloniali per rispettare il politiquement correct ma stimolante per il taglio multidisciplinare: le vie materiali fluviali, terrestri, marittime ma anche quelle immateriali, le vie della diffusione delle diverse religioni monoteistiche e delle strategie per l’indipendenza, quelle per l’acquisizione delle armi o delle migrazioni interne delle popolazioni e della tratta degli schiavi. Valida la scelta dei materiali artistici primitivi e della documentazione fotografica, meno quella delle opere di artisti africani contemporanei, tranne un video del 2011, Other faces di William Kentridge
Il centenario di August Rodin è l’occasione per una celebrazione sontuosa e enciclopedica al Grand Palais (fino al 31 luglio); l’esposizione presenta il lungo percorso della sua produzione scultorea in una vasta gamma di dimensioni e materiali – bronzo, marmo, pietra, gesso, cera, metalli – e dei suoi disegni, non solo preparatori ma anche delle guaches, tra cui le bellissime che aveva esposto nella esposizione trionfale svoltasi nel 1902 a Praga. Le sue opere vengono puntualmente confrontate con artisti suoi contemporanei per evidenziarne il marcato influsso e poi con artisti nostri contemporanei che hanno raccolto il testimone della sua carica dirompente cogliendone gli spunti rivoluzionari e innovativi. E per completare l’immersione nel mondo inesauribile delle sue opere, al museo Rodin  da poco rinnovato, viene proposto l’audace omaggio del grande Anselm Kiefer, invitato a lavorare sull’opera rodiniana Le Cattedrali di Francia. Kiefer (fino al 22 ottobre) si misura con la capacita materica e spaziale dell’intera opera dello scultore ottocentesco producendo oltre ai grandi pannelli de Le cattedrali di Francia, lavori di varie dimensioni e tecniche, quali le sorte di infolio di grandi acquarelli e le sculture aspre e sofferte, talune immobilizzate nelle sue gabbie/vetrine.
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Auguste Rodin, vista della mostra, Grand Palais
L’emozione della visita alla mostra alla Fondation Vuitton “Icônes de l’art moderne” con la Collection Chtchoukine” scaturiva non solo dalla qualità eccezionale delle opere, perlopiù mai viste fuori della lontana Russia, ma anche dall’emergere del valore e del senso del collezionista bizzarro e audace di quella raccolta e dell’influenza artistica che suscitò, da quando decide di aprirla al pubblico nel 1908. La riflessione sul tema del collezionismo trova una continuazione in altre due esposizioni meritorie perché portano a conoscenza capolavori poco accessibili di collezioni private. Dal Giappone (fino al 21 agosto) la Collezione Bridgestone all’Orangerie, parte della mostra “Tokyo-Paris” dell’Orsay che ha presentato un gruppo di opere della Collection Ishibashi Foundation.  Shojiro Ishibashi (1889-1976), il fondatore del gruppo Bridgestone – che forse non a caso è la traduzione letterale del suo cognome – fu un collezionista affascinato dalla cultura figurativa occidentale e iniziò ad acquisire opere dalla fine degli anni ‘30. Nel 1952, realizzò nel centro di Tokyo il Bridgestone Museum of Art per esporre la sua collezione di opere, dal periodo Impressionista all’arte contemporanea occidentale e giapponese. 
Una piccola parte delle più di 2mila opere vengono esportate in quest’unica tappa fuori patria, durante i lavori di ristrutturazione del museo nipponico. Una scelta che comprende, tra gli altri, Daumier, Renoir, Modigliani, Cezanne, Pollock, Hartung, che talora vengono messi a confronto con i loro contemporanei giapponesi. Vengono presentati alcuni pittori dello stile yôga, da noi poco diffusi e poco noti, quali Shigeru Aoki o Takeji Fujishima, che scelsero lo stile occidentale negli anni ‘20. La collezione offre uno scorcio della cultura giapponese e dell’approccio personale di un collezionista che ha voluto aprire al pubblico la sua collezione e la presenza de Il bacio di Brancusi, riprodotto anche sul manifesto, rivela il suo desiderio di avvicinamento fra le due culture. 
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Pierre-Auguste Renoir, Mademoiselle Georgette Charpentier assise, 1876 Tokyo, Bridgestone Museum of Art © Bridgestone Museum of Art, Ishibashi Foundation
Dopo più di trentacinque anni dall’ultima monografica, grande mobilitazione è stata anche per Camille Pissarro nell’antologica del Marmottan che ha esposto il percorso pittorico lungo l’Impressionismo, a fianco di grandi maestri, e si è completata con la mostra al Musee du Luxembourg, “Pissarro à Éragny La nature retrouvée”. 
Camille Pissarro nel 1884 si stabilì a Éragny-sur-Epte, in una bella fattoria che successivamente comprò aiutato da un prestito di Monet e dove visse fino alla fine. L’esposizione punta sulle delizie campestri illuminate da luci vibranti. Gli oli pastosi o brillanti catturano lo sguardo molto più degli acquarelli, invece poco interessanti. Ma la vera scoperta consiste in una serie di piccoli disegni a penna di agricoltori all’opera, di feste paesane o di illustrazioni meticolose dei libri cari alla famiglia e dei giornali anarchici. Nello stesso periodo, Pissarro stabilisce una stretta collaborazione con il figlio Lucien, di cui pure vengono presentate alcune tele non facilmente distinguibili da quelle paterne. L’analisi estetica delle opere del periodo di Éragny va arricchita da un’angolazione politica. Il suo coinvolgimento nel movimento anarchico di cui fu fervente sostenitore trova testimonianza nella serie di incisioni straordinarie Turpitudes sociales che lo rendono erede diretto di Daumier. 
In ultimo, “Jardins al Grand palais” è una mostra che, come il titolo fa sospettare, si presentava come una raccolta di appunti per una riflessione sul tema della botanica e della suggestione cromatica e sulla perfezione e inesauribile creatività della natura e dell’altrettanto infinita varietà della capacità di rappresentarle. Una visita che, soprattutto se fa seguito alla contigua esposizione di Rodin, risulta rasserenante e divertente. Molte curiosità, tra cui una sala con un inventario di innaffiatoi o l’allestimento, certo non originale, ma qui molto ben realizzato, di riquadri/finestre che inquadrano a distanza delle vedute di paesaggi naturali. 
A Parigi ti rendi conto che la descrizione delle cronache giornalistiche di un Paese sospeso e paralizzato risulta quanto meno parziale. Se non altro la macchina della trasformazione del territorio e degli investimenti e la gestione della cultura sono infatti sempre in moto e neanche troppo a rilento. 

Giancarlo Ferulano

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