04 agosto 2017

Chi pensava che sarebbe diventato famoso?

 
Così Claudio Abate, su Pino Pascali. Ecco un'intervista inedita in esclusiva, realizzata nel 2016, al grande fotografo dell'arte scomparso a Roma

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Istrionico come gli artisti che ha fotografato, sarcastico e talvolta un po’ amaro, come tutti gli uomini di grande esperienza. Un Claudio Abate come forse non lo avete mai letto, le cui parole sono state raccolte una mattina dello scorso anno, nella sua Roma, dopo una notte passata a fare tardi. Una pagina inedita che oggi vi riveliamo, mentre per l’ultimo saluto al grande obiettivo dell’arte l’appuntamento è lunedì 7 agosto, alle 10, alla Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo. 
Come hai cominciato?
«È stata una crescita lenta, che ho fatto in un ambiante speciale. Mio padre era un pittore. Abitavo in via Margutta e ho iniziato proprio a 12 anni a lavorare al fianco di un fotografo di artisti. E a 15 anni avevo già il mio studio». 
Come hai incontrato gli artisti dell’Arte Povera?
«Quando ancora lavoravo con il vecchio fotografo che scattava ritratti a quadri e sculture, e io avevo capito che non mi piaceva più. Tra l’altro il primo con il quale lavorai nel 1959 era Mario Schifano, che faceva solo quadri. Lui, quando vide che cominciai a interessarmi all’Arte Povera, non mi ha più parlato. Ha avuto l’impressione che l’avessi tradito. Mi dispiace perché era un amico, uno simpaticissimo. Quando ho scoperto il movimento ne sentivo l’attrazione perché capivo che stava nascendo qualcosa di nuovo. Quel gruppo innovativo faceva parte di un mondo che volevo seguire. Mi incuriosiva molto. Facevo queste cose completamente da solo perché mi divertivo, e avevo una grande libertà. Guadagnavo talmente tanto lavorando con Playmen, il giornale delle donne nude, che me lo potevo permettere. Prendevo quasi 500mila lire al mese e pagavo l’affitto del mio studio 40mila. I ristoranti costavano 500 lire quindi potevo invitare tutti i giorni gli amici a cena. La cosa molto interessante è che a quell’epoca gli artisti collaboravano tantissimo tra di loro. Si incontravano, si parlavano e discutevano dei progetti. Tutti andavano a questo bar in via dell’Oca, Le Prive, che apparteneva alla gallerista Mara Coccia o a quello vicino alla galleria di Plinio de Martiis». 
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Claudio Abate, Jannis Kounellis, Galleria La Salita, Roma 1973
Se dovessi ricordare un momento speciale?
«Tutti! Ma probabilmente una cena a casa di Fabio Sargentini con Robert Rauschenberg. Tutti gli artisti italiani stavano li e c’era anche un gallerista tedesco importante. Forse per qualcuno di loro ha cambiato qualcosa: quando arrivò Rauschenberg a Roma fu un evento speciale. E li chiacchieravano tutti, ballavano. Ho fatto delle foto bellissime. Ma non entravo nelle discussioni, ero obiettivo». 
Un giorno mi hai detto che hai imparato in questi anni a creare delle immagini simbolo. Come definiresti una “immagine simbolo”?
«È l’immagine nella quale puoi ritrovare la totalità dell’opera di un artista. Credo che vivendo insieme agli artisti, su questo punto, mi hanno dato come un’indicazione. Fu Kounellis a farmelo capire, i primi tempi che ci frequentavamo. Osservandolo per ore ho capito che vedeva i suoi lavori da un punto centrale e poi, da lì, ho capito automaticamente che dovevo usare un punto che centralizzasse tutto nelle fotografie. Per Dodici cavalli vivi, il punto di vista da cui lui guardava la sua installazione era quello da cui la foto doveva essere presa. Voleva che si concentrasse tutta una mostra in un’immagine. Avrò 20mila foto di Kounellis, ma su tutte queste lui ne sceglieva solo una. Kounellis mi faceva lavorare perché diceva che ero l’unico che poteva dare una lettura del suo lavoro. Anche per Lo Zodiaco di Gino De Dominicis per esempio, avrei potuto fare una foto per ogni personaggio, ma solo con una diventava Lo Zodiaco». 
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Pino Pascali, Vedova Blu, 1965 – Photo Courtesy Claudio Abate
Per Vedova blu di Pino Pascali, tu hai comunicato sia l’opera, sia il rapporto intimo dell’artista, con la figura del ragno. Nel suo ultimo libro, Pino Pascali. Retour à la Méditerranée (Dijon, Editions Presses du Réel, 2015) Valerie Da Costa, propone di vedere il movimento di Pascali sotto il ragno come una reinterpretazione del tarantismo, il male psicologico descritto da Ernesto de Martino in La Terra del Rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud (Milan, Il Saggiatore, 1961)
«Questo è stato un po’ un gioco. Lui era uno molto spiritoso, molto allegro, molto vivace. Stavamo lì al Palazzo delle Esposizioni, in via Nazionale, e gli ho detto “Fai il ragno” e Pino l’ha fatto. Ho anche una sequenza di queste foto che non ho mai utilizzato in cui lui gira e corre intorno alla Vedova. Mica si poteva pensare che con il tempo sarebbe diventato importante. Era solo un gioco». 
Riuscivi a fotografare artisti con i quali non avevi la stessa complicità o la comprensione del loro lavoro?
«Con Eliseo Mattiacci inizialmente ho avuto un attimo di indecisione. Sentivo che era fuori da tutto. È un artista a sé, non legato ad una situazione del mondo dell’arte. Non capivo bene ma piano piano sono riuscito ad entrare nella sua opera. Tutto è partito nel 1969 da quest’azione che fece all’Attico arrivando con il rullo compressore. Spianò una strada all’interno della galleria. Da qui ho cominciato a capire meglio le sue opere. Poi siamo diventati amici e ho fatto più di 10mila foto dei suoi lavori». 
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Gino De Dominicis, Zodiaco, vista dell’installazione Galleria l’Attico, 1970, Archivio Gino De Dominicis, Roma, foto Claudio Abate
Quante volte hai avuto l’impressione che un lavoro non fosse ancora maturo?
«A me è successo piuttosto il contrario. Ho incontrato giovani artisti che facevano un lavoro interessante e ho provato a valorizzarli, come capitò con Giuseppe Capitano che ho presentato a Sargentini. Avevo visto le sue opere per caso quando aveva 18 o 20 anni, a casa di suo padre». 
Si conosce molto bene la tua immagine di Giorgio Di Chirico che volta le spalle a Gino De Dominicis uscendo della sua mostra a Venezia nel 1972. Ma non si conosce nessun’altra foto della sua mostra. Dove sono?
«Le ha distrutte. Ero molto amico di Gino De Dominicis. Veniva da me tutte le sere e si parlava fino alle 3 di notte. Ma dopo la Biennale del ’72 a Venezia, è cambiato completamente. Quando mise il giovane affetto dalla sindrome di Down alla Biennale, ci fu un gran scandalo. Da quel momento Gino diventò un altro e cominciò ad odiare le fotografie. Come se avesse cambiato religione. Non si voleva più prestare e non voleva più lasciar fotografare i suoi lavori». 
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Claudio Abate, Marisa e Mario Merz, Galleria L’Attico, 1969

Un’installazione è in essenza effimera, ma il fatto che tu ne fai una foto, la ritrai, significa dargli un’altra dimensione, nel tempo. Sarebbe stato questo il motivo?
«Un’installazione è cosa di un momento, ma la foto ti riporta a quell’istante. Credo piuttosto che ci siano degli artisti che, nel tempo, cambiano idea sulle proprie opere, hanno un ripensamento. Dei lavori che hanno fatto alcuni vorrebbero annullarli. Uno fa dei disegni e dei quadri e dopo qualche anno dice che sono delle stronzate e le butta. Questo è ciò che è successo con Gino De Dominicis. Infatti diceva in giro che Lo Zodiaco non l’aveva fatto lui. Dopo la Biennale di Venezia mi diceva che gli servivano delle stampe dei suoi lavori precedenti: veniva da me nel mio studio in via del Babuino e mentre stavo lavorando su queste foto si metteva in tasca tutti i negativi. Io non me ne sono accorto. Ha preso 180 o 200 immagini che sono state distrutte, o forse le ha qualcuno. Erano spesso l’unica testimonia delle sue opere, come per esempio il suo lavoro con la gallina. Il fatto che le fece sparire significa che voleva eliminare qualunque documentazione. In realtà avevo anche il disegno originale del progetto presentato a Venezia nel ’72, Seconda soluzione d’Immortalità, ma un giorno Gino venne da me e disse: “Ah no Claudio, questa cornice non va. Lo faccio incorniciare io” e non me l’ha più riportato. Sicuramente lo distrusse». 
Nella mostra “Marisa e Mario Merz” al Macro (18 febbraio-12 giugno 2016), hai presentato le foto del viaggio in aereo con Fabio Sargentini. Sono Marisa e Mario Merz che ti hanno invitato ad accompagnarli?
«Loro non erano interessati dalla fotografia. Generalmente le cose le ho fatte di mia iniziativa ma quest’operazione fu proprio un’idea di Sargentini. Venne da me la mattina portandomi il caffè e mi propose di documentare questo progetto che Marisa Merz aveva già tutto programmato».
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Claudio Abate, Carmelo Bene
In quei momenti ti rendevi conto dell’importanza delle tue foto o di quelle dei milanesi Ugo Mulas o Giorgio Colombo?
«Ho fatto tutte queste foto per pura curiosità mia. Non me ne sono mai accorto! Né io né i Merz. Loro non hanno mai avuto l’idea di avere un archivio. Negli anni ’70 non ero ordinato e volevo buttare tutta la mia documentazione perché non si poteva più entrare in casa. Non credevo nella possibilità che tutto questo avesse un futuro. Poi lasciando il mio studio di via del Babuino per trasferirmi a San Lorenzo ho lasciato lì molte cose, tra l’altro tante immagini di Pino Pascali». 
Come definiresti lo statuto delle tue immagini e la tua estetica?
«Ho sempre pensato a questo lavoro come a una documentazione o una testimonianza di quello che stava succedendo. Non ho mai fatto pensieri diversi. Ma non saprei spiegare la mia “estetica”. Forse è il fatto di documentare un momento, riuscire a capire quello che vuole l’artista, o essere il più fedele possibile al suo pensiero. E poi sono uno che cura molto la stampa e ho anche una grande confidenza con la luce. Per esempio, per la foto dell’Igloo di Mario Merz al Foro romano, ho capito che poteva venire una bella immagine aspettando tutta la notte quella luce blu simile a quella della sua scritta al neon. Si tratta solo di pazienza, di tecnica – lavoro spesso con la macchina analogica che permette una definizione di una precisione molto importante – e di comprensione dell’opera. Tutto è, soprattutto, frutto di un istinto che mi è naturale». 
Carole Blumenfeld 

In home page: Claudio Abate, foto © Simon d’Exéa

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