22 agosto 2017

Nicola Samorì, o “del perturbante”

 
Acqua e fuoco, per rimettere in relazione l'antica Pescheria con la Chiesa del Suffragio a Pesaro. Aprendo varchi tra antico e contemporaneo, in una dimensione fantasmatica

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Considerando l’arte di Nicola Samorì, possono tornare alla mente categorie freudiane: su tutte, quella che – nell’indisponibilità di una traduzione fedele – in italiano è stata resa con il termine di “perturbante”, la quale in tedesco suona Das Unheimliche. Si tratta di un particolare tipo di realtà angosciosa che deriva dall’incontro con qualcosa che non ci è (o non ci è più) familiare, e per questo ci mette a disagio. L’aggettivo heimlich (da Heim, casa), di cui unheimlich è la negazione, designa proprio ciò che è domestico, fidato ed intimo. In breve, nell’interpretazione freudiana è unheimlich tutto ciò che rappresenta la rinnovata insorgenza di un complesso infantile rimosso o di un’antica credenza superstiziosa sorpassata che sembra, invece, trovare conferma nella realtà. Il campionario delle esperienze e dei temi “perturbanti” è vasto, e possiamo iniziare ad avvicinarci alla relazione tra questa nozione e l’arte di Samorì enumerandone alcuni casi salienti. Tra essi si trovano: il terrore di perdere gli occhi o altre parti del corpo (per Freud collegato alla paura dell’evirazione); il presentarsi di sosia, alter ego, scissioni e moltiplicazioni del soggetto; il ritorno inspiegabilmente identico di eventi e situazioni (oggettivazione dell’interna coazione a ripetere della psiche); ciò che è in relazione con la morte, il ritorno dei morti o l’animazione dei cadaveri. 
L’intervento dell’artista forlivese al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro – una mostra personale, a cura di Marcello Smarrelli, che sarà visitabile fino al primo di ottobre – sembra convalidare l’ipotesi di questa connessione, la quale ci offrirà l’occasione di alcune riflessioni. 
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Nicola Samorì, La candela per far luce non deve consumarsi, Chiesa del Suffragio, Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro, 2017 Exhibition view, foto Stefano Maniero
Egli ha ricollegato gli spazi espositivi – l’antica Pescheria e la contigua Chiesa del Suffragio – alla loro precedente destinazione d’uso, organizzando il suo apporto intorno a due perni metaforici: l’acqua (del mare) e il fuoco (della fede e, in senso cristiano, della passione). Due elementi atavicamente sacrali e legati al circolo di produzione e consunzione della vita nell’alveo del tempo, come tematizzato dal titolo della mostra: “La candela per far luce deve consumarsi”, citazione di San Carlo Borromeo.
All’ingresso in Pescheria siamo accolti da una teoria di sculture lignee dal sapore giacomettiano, in cui la figura umana subisce un’erosione che mima quella degli elementi, come può accadere a dei legni che si trovano sulla spiaggia. A parete, una serie di marine provenienti dai depositi dei Musei Civici di Pesaro – tra cui si mimetizzano alcune creazioni dell’artista – profila un’orizzonte; e tra di esse, in corrispondenza di una lapide preesistente, è collocato un rifacimento in onice dell’autoritratto di Canova, cui manca però il volto, sostituito da una cavità. È la zona dell’acqua, segnata anche dalla presenza delle fontane, all’esterno e in fondo allo spazio. La zona del fuoco è invece affidata all’altissima scultura in legno (cinque metri) che marca il centro dello spazio dodecagonale della chiesa, raffigurante un cero dalle fattezze antropomorfe; nonché ai dipinti dell’artista che, come di consueto, riprendono i soggetti e la maniera dei maestri rinascimentali e barocchi –  affogandoli nel buio – e presentano aperture della superficie pittorica da cui emerge la materia sottostante: un informale che tormenta il classico. A farne le spese sono le figure di Cristo (cui nell’Ecce homo sono cavati gli occhi) e dei santi: San Sebastiano, San Girolamo, un San Bartolomeo scorticato, com’era l’uso del tempo, con dei bastoncini. Tutti rigorosamente privati del volto e di parti del corpo. Rigorosamente: perché, più che al raptus, questi atti di violenza rimandano alla premeditazione dell’assassino metodico, il cui fuoco è raggelato in una stasi composta. A tali dipinti si affiancano due opere dei Musei Civici: Cristo e un manigoldo di Giuseppe Maria Crespi, nel quale l’usura del tempo ha ottenuto un risultato curiosamente simile a quello delle effrazioni di Samorì, e un Cristo deposto di Nicola Zafuri, al cui fondo aureo corrisponde una piccola opera dell’artista in foglia d’oro. Questo rapporto con i Musei prosegue anche nella loro sede a Palazzo Mosca, dove una scultura marmorea di Samorì è messa in dialogo addirittura con l’Incoronazione della Vergine di Giovanni Bellini. 
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Nicola Samorì, La candela per far luce non deve consumarsi, Chiesa del Suffragio, Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro, 2017 Exhibition view, foto Stefano Maniero
Siamo al cospetto di una vera e propria evocazione di fantasmi. Di fronte a simili presenze, siamo spaesati: è molto difficile dire chi siano e da dove vengano. E non solo perché l’iconoclastia dell’autore si appunta senza tregua sul contrassegno dell’identità personale, il volto. D’altra parte, una forma di riconoscimento ci è possibile: sono materiali della nostra cultura, cogliamo i riferimenti iconografici e storici. Ma essi si depositano con una programmatica incoerenza, ancor più enfatizzata dal continuo accostamento tra opere attuali e antiche, che vengono poste sullo stesso piano e i cui caratteri si sovrappongono. Tale incoerenza li contorce e li rende, al loro apparire, precisamente unheimlich: circondati da un’atmosfera di familiarità estraniata, in costante rimando alla morte. L’autore del resto ha confessato di essere dedito alla riproduzione degli antichi capolavori sin dall’infanzia, e ha collegato le scorticature dei suoi dipinti al costume contadino – di cui egli è stato testimone in tenera età – dell’ingrassare l’animale per poi ucciderlo e scuoiarlo. Consegnato a tale contesto di derivazione infantile, anche il buio che domina nei dipinti assume un’altra risonanza. È il buio di cui si ha paura perché minaccia la sparizione della persona amata. Allora, è come se questi quadri fossero, in se stessi, terrorizzati: perché caduti in solitudine. Non più protetti da una storia dell’arte coerente e dai valori di una religione condivisa, cui pure fanno riferimento, sono condannati a mostrarsi sotto la specie di una singolare mostruosità, come reliquie mortuarie di due culti sorpassati: quello religioso e quello laico dell’arte. La pratica artistica di Samorì mette dunque in scena la ritualità ossessiva di una ripetizione che dalla memoria personale si allarga fino a contagiare quella di una civiltà intera. Siamo così indotti a confrontarci insieme – vale a dire dall’esterno, da estranei – con i primordi (il Rinascimento) e la fine (l’Informale) della storia dell’arte come disciplina autonoma. A una simile estraneità fa cenno anche la particolare precarietà dell’autonomia delle opere, le quali non si pongono tanto come originali ma come rifacimenti. Esse sono, in sostanza, dei sosia che inspiegabilmente ritornano per una coazione a ripetere della Storia. Disancorate, inevitabilmente, dal loro contesto tradizionale – cioè dal loro contesto entro l’epoca della Tradizione – queste tracce mnestiche del passato riaffiorano come spettri dalla consistenza onirica. Perciò, delle opere in questione è perfino lecito mettere in discussione, propriamente, la presenza. Non si può dire con certezza, riprendendo l’espressione benjaminiana, che esse siano hic et nunc. Siamo condotti in una zona di indecidibilità dove si esaspera una delle condizioni essenziali dell’arte sin dalle sue origini. Come scriveva Merleau-Ponty ne L’occhio e lo spirito: “Gli animali dipinti sulla parete di Lascaux non sono lì come è lì la crepa o il rigonfiamento del calcare. Non sono neppure altrove”.
Antonio Vannini
Sopra: Nicola Samorì, Corpus Domini, 2017

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