19 agosto 2017

Si dimette il Committee on the Arts, per le dichiarazioni di Donald Trump su Charlottesville

 

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Non un’estate rilassante per Donald Trump, dai paventati attacchi nucleari da un capo all’altro del mondo a certe questioni talmente interne da sconfinare nell’ambito famigliare, come il Russiagate, l’inchiesta su rapporti non troppo ufficiali con Mosca, che ha travolto il genero Jared Kushner. Adesso ci si mettono anche i suprematisti bianchi dell’alt right – l’ultima definizione trovata all’imbecillità (poco) umana – a complicare le cose. I disastri di Charlottesville, iniziati come reazione dei gruppi di estrema destra alla rimozione di una statua del generale confederato Robert Lee da un parco e costati la vita a una manifestante antirazzista, investita da un folle, si stanno trasformando nell’ennesima Waterloo per il Presidente. Troppo generica la condanna delle violenze, troppo morbide le parole usate nei post pubblicati sui canali social ufficiali, criticate da tutti, dalla politica al mondo dell’economia, dai Democratici, dai Repubblicani, dalla figlia Ivanka, da Tim Cook, amministratore delegato di Apple, da Arnold Schwarzenegger, Repubblicano illuminato, e più giù, fino ai membri del Ku Klux Klan, come l’ex leader David Duke che, all’opposto, avrebbe preferito parole di encomio e di supporto e gli ha giustamente ricordato il sostegno durante la campagna elettorale: ‹‹Guardati allo specchio e ricordati che sono stati i bianchi americani a regalarti la presidenza››. 
Punto nell’orgoglio per aver scontentato tutti, Trump è ritornato sui social, con una serie di post a commento della decisione, presa da alcune cittadine, di rimuovere i simboli legati al passato sudista: ‹‹è triste vedere come la storia e la cultura della nostra nazione venga distrutta dalla rimozione di bellissime statue e monumenti››. Questioni di autorappresentazione che, proprio negli iper-iconici Stati Uniti, non possono non creare profonde fratture. 
Sarà stata proprio tale presidenziale presa di posizione estetica a far indignare il board del President’s Committee on the Arts and the Humanities, la commissione della Casa Bianca, istituita nel 1982 da Ronad Reagan, che si occupa dell’area culturale, riunisce istituzioni come la National Gallery of Art, lo Smithsonian e la Library of Congress, e le cui finanze, per altro, sono state ripetutamente colpite dalla gestione Trump. Durissima la lettera firmata da personalità come Chuck Close, Kal Penn e Jhumpa Lahiri: ‹‹non possiamo tollerare il rifiuto del Presidente a condannare in maniera inequivocabile questo cancro di odio che incoraggia ulteriormente coloro che desiderano il male dell’America. Non possiamo rimanere al nostro posto, senza prendere posizione contro tali parole e tali azioni. Ignorare questa retorica odiosa ci avrebbe resi complici. Abbiamo giurato di supportare e difendere la Costituzione degli Stati Uniti contro tutti i nemici, interni ed esterni. La discriminazione non è un valore americano››. 
E non saranno gli unici a lasciare le sale immacolate che affacciano su piazza Lafayette. A cadere, questa volta controvoglia, la scomoda testa di Stephen Bannon, uomo controverso, tra gli strateghi della campagna elettore del Presidente ed ex direttore di Breitbart, sito specializzato in fake news e teorie della cospirazione, legato a doppio filo agli ambienti dell’estrema destra. Molti commentatori riconoscono nelle dimissioni di Bannon un’offerta sacrificale all’opinione pubblica, per bilanciare gli scivoloni di questi ultimi giorni. E il Presidente è sempre più solo. (MFS)

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