05 settembre 2017

“Avanti & Indietro” nell’arte

 
Una nuova rubrica che entra negli studi d'artista. Prima conversazione con Caterina Silva
di Raffaele Gavarro

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L’idea di aprire questa piccola rubrica è nata durante le visite negli studi degli artisti, una parte del lavoro del critico/curatore che rimane tra le cose più interessanti di una professione che ha visto negli ultimi anni privilegiare aspetti relazionali altrimenti direzionati. 
A dirla tutta questa decisione è anche dovuta alla necessità di non limitare la scrittura critica sull’opera e sugli artisti solo all’occasione espositiva. Tra l’altro, come qualcuno ricorderà, in questi ultimi tempi la maggior parte dei miei interventi su questa rivista, e non solo, si è concentrata sui rapporti tra Cultura e Politica e più in generale sulle politiche culturali, temi sui quali naturalmente continuerò a riflettere.
In “Avanti & Indietro” dialogherò con artisti giovani e meno giovani, impegnati con linguaggi cosiddetti tradizionali e non, italiani e non. Il desiderio è quello di far emergere le ragioni del loro fare artistico e il senso della progettualità sulla quale impegnano la propria vita, cercando di dare ai lettori la possibilità di valutare se intenzioni e impegno corrispondano o meno con quelle che sono le proprie aspettative, con ciò che attendono oggi dall’arte. 
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Caterina Silva_impressione 5, 2017, pigment, spray-paint, oil, ink, barley, soil and dust on canvas, 150x150cm, Photo Courtesy Andrea Veneri
La rubrica ha un titolo che merita una breve spiegazione. Mi sono trovato sempre più spesso negli ultimi tempi ad uscire dagli studi degli artisti, ma soprattutto dalle mostre, con la convinzione di essere in un momento nel quale la perdita di regole condivise, di una qualche linea in grado di accomunare intenti ed effetti, ci stesse conducendo ad uno stato di confusione endemica senza ritorno. A parte la forza egemonica e normativa del mercato su un sistema dell’arte che su di esso si è perfettamente modellato, ovviamente dove c’è, il disorientamento appare sempre più grande sotto il cielo. 
A questa perdita di qualsiasi direzione identificabile e condivisa, segnalo il contrapporsi di un moto ondoso che ci porta Avanti & Indietro, appunto. La & commerciale sta ad indicare un legame indissolubile tra i due termini piuttosto che una congiunzione. Un movimento che è di natura esperienziale, verificabile dunque nei fatti, ma che è anche interiore, entrambi conseguenza del tentativo di trovare un punto di riferimento in ciò che ci ha preceduto come nelle ipotesi di un futuro che, com’è stato detto in più occasioni e in termini più o meno convincenti, si definisce come sempre più prossimo al presente. 
“Avanti & Indietro” è invece un modo di stare nel presente ma con la consapevolezza che esso sia l’immancabile risultato del passato e l’implicito anticipo del futuro. In altre parole è un modo di pensare e comprendere il presente in decisa contrapposizione a quel “presentismo” che si (ci) autocondanna alla banale e passiva accettazione di ciò che è. Una condizione che si è perfidamente insinuata nella cultura, nella politica e nella psicologia, individuale e collettiva, attuali, contando evidentemente sul risparmio energetico che senz’altro consente. 
Nella sostanza si tratta della coda dolcemente velenosa del postmoderno, della legittimazione post mortem di una molteplicità fattuale e interpretativa, che se prometteva libertà ha invece lasciato sul campo una confusione irriducibile a qualsiasi sistemazione teorica. 
Primo appuntamento di “Avanti & Indietro” è con Caterina Silva, nata a Roma nel 1983, dove nonostante tutto e le lunghe residenze all’estero, continua a vivere e lavorare.
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Caterina Silva_SSOL-AP. Amsterdam, 2017, Rozenstraat-a rose is a rose is a rose, Amsterdam
Cominciamo da qualche cenno sulla tua formazione che è avvenuta tra Roma e Londra. In seguito, nel 2012, sei stata in residenza a Parigi alla Cité International des Arts, per poi trascorrere dal 2014 due anni ad Amsterdam alla Rijksakademie, e sei appena tornata da Gwangju dove sei stata tre mesi all’Asia Culture Center
«Dopo il liceo classico ho studiato per un anno scultura a Londra, poi Filosofia e Scenografia a Roma. Parallelamente agli studi ho lavorato come scenografa e costumista in teatro e iniziato vari progetti performativi itineranti tra la Sicilia, Parigi e l’India. Nel 2008 ho capito che per approfondire la ricerca sulla pittura, che procedeva frammentaria tra uno spostamento e l’altro, avrei avuto bisogno di uno studio stabile. Sono rimasta a Roma per tre anni fino a quando ho avuto la possibilità di passare sei mesi a New York, fondamentali per contestualizzare la ricerca gestuale e processuale che stavo portando avanti in studio. Nel 2012-13 ho vinto una residenza alla Cité Internationale des Arts di Parigi, dove ho approfondito l’opera di artiste donne escluse dalla storia dell’arte “ufficiale” come Berthe Morisot, Mary Cassat, Jeanne Lanvin, all’interno di una ricerca più ampia sull’idea di Neutro e di Impersonale. Nel 2014 mi sono trasferita alla Rijksakademie di Amsterdam, un programma di residenza biennale. Poco dopo la fine di questa esperienza in Olanda ho vinto un’altra residenza, questa volta a Gwangju in Corea del Sud, dove la mia ricerca si è estesa in nuove direzioni che sto ancora esplorando».
Lavori principalmente con la pittura, ma anche con performance, video e anche la scrittura ha un ruolo importante nella tua vita. Cosa tiene uniti questi diversi linguaggi nella tua ricerca? Qual è il filo che segui nel passare dall’uno all’altro?
«Lavorare ai limiti dei diversi linguaggi cercando di spingerli verso un’implosione è una costante nella mia ricerca. Credo che la scrittura abbia avuto un ruolo centrale all’inizio del mio percorso e gli altri media si siano inseriti in seguito senza gerarchie. La performance, usata in modo anti-spettacolare, era il modo più naturale di interagire con la realtà circostante, il video documentava mentre la pittura rispondeva alla necessità di ricomporre un’identità disgregata. Lentamente ho capito di voler dare più spazio alla pittura, sia come strumento di contrasto nei confronti di un presente mediatizzato e sfuggente, sia perché intravedevo le potenzialità di un mezzo che nella sua apparente semplicità di utilizzo avrebbe potuto contenere la sintesi delle mie ricerche. Più o meno consciamente, ho trasferito all’interno della pratica pittorica elementi provenienti dagli altri media, sia a livello processuale, attraverso tecniche che aumentassero il livello di attenzione nel dipingere o decostruendo gli automatismi mentali che portano la mano ad arrivare a una determinata forma, sia a livello formale, installando le opere senza telaio, arrotolando le tele per impedirne la lettura o integrando brevi testi all’interno di costellazioni pittoriche frammentarie. Durante la residenza in Olanda ho sentito il bisogno di ridurre tutta la mia pratica a ciò che succedeva sulla superficie chiusa del quadro e ho iniziato un corpo a corpo con la materia della pittura. Questo processo violento – sfociato poi nella mostra “Soggetto. Oggetto. Abietto” presso la galleria Riccardo Crespi di Milano – si è esaurito naturalmente e negli ultimi due anni è subentrata una nuova leggerezza che mi ha ricondotto all’apertura totale con cui avevo iniziato a relazionarmi all’arte o la vita, consapevole della specificità del mezzo ma senza creare nessuna gerarchia o definizione tra tutto quello che faccio».
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Caterina Silva_impressione 1, 2017, pigment, spray-paint, oil, ink, barley, soil and dust on canvas, 150x150cm, Photo Courtesy Andrea Veneri
Sei stata molto chiara, ma vorrei lasciare da parte le questioni linguistiche in sé, o meglio vorrei invitarti a intrecciarle a quell’idea, o meglio citando Edgar Morin, a quel “sentimento della complessità”, che mi pare la via migliore per tentare di capire il tempo e l’arte che stiamo vivendo e facendo. In particolare ultimamente, non senza una certa sorpresa, mi sono trovato a fare considerazioni sulla complessità proprio a proposito della pittura. E parlo di sorpresa perché naturalmente oggi la complessità sembrerebbe meglio rappresentata dalla dinamica non lineare della digitosfera, piuttosto che da un mezzo espressivo addirittura pre analogico come la pittura. Per spiegarmi meglio mi pare che quest’ultima, ovviamente nello specifico di alcuni casi, stia riuscendo a tenere insieme e a rappresentare quell’indefinitezza, e appunto complessità, indotta dalle molte e simultanee sfaccettature con le quali si presenta la realtà congiuntamente al suo doppio digitale. Mi sembra che siano diverse le modalità grazie alle quali si sia prodotta questa possibilità. Da una parte un destrutturarsi del linguaggio pittorico, con una capacità di includere gli effetti di una percezione visiva inevitabilmente condizionata dal digitale, e che comprende la capacità di accordarsi efficacemente ad altri linguaggi e forme espressive, come nel tuo caso; mentre dall’altra si pone una continuità naturale e istintiva, che è tanto del produttore come del fruitore, con l’esistenza, intesa nel suo complesso e fitto intrecciarsi di elementi reali con quelli impalpabili, ma non per questo meno concreti, diciamo di natura immaginativa
«Provo. Devo semplificare. Non sono sicura che l’arte sia in grado di avere sempre una relazione transitiva con il reale o restituirne in modo esatto la complessità. In Europa, dalla caduta del muro di Berlino in poi, abbiamo assistito ad un processo graduale – documentato con mezzi all’apparenza sempre più accurati – di scongelamento, frammentazione e moltiplicazione del presente. La Storia si è rimessa in moto, travolta dalle altre storie che da sempre la componevano ma che erano rimaste pressoché invisibili all’interno delle narrazioni ufficiali. In un primo momento l’arte sembrava in grado di leggere questo aumento esponenziale di presenti sincronici, facendo apparire la scelta di un medium più adatta a rappresentarne la complessità o caricandone un altro di valenze a volta progressiste, a volta reazionarie. Oggi questi criteri non sono più applicabili perché da un lato il punto di vista coloniale eurocentrico e patriarcale che permetteva una lettura della storia e dell’arte in termini lineari ed evolutivi è in fin di vita (e sinceramente mi auguro che muoia definitivamente presto), dall’altro il capitalismo neo-liberale ha fagocitato il sistema dell’arte cooptando il valore sovversivo delle sue pratiche e trasformandone i “discorsi” in merce da produrre e consumare instancabilmente al ritmo di biennali e fiere. Venendo a mancare un sistema credibile di riferimento, il potenziale rivoluzionario o trasformativo di un gesto non può essere letto nel momento presente. Scompare l’arte come criterio, ideologia, linguaggio, apparato di potere. Nel disastro si sviluppa una libertà nuova che procede spedita nelle pieghe di quello stesso sistema che essa non riconosce e che sottilmente si adopera per distruggere. La pittura, con gli altri, gioisce di questa confusione. Oggetto tra gli oggetti, si muove felice tra le possibilità aperte. La libertà a cui alludo, però, è fondamentalmente un problema. Non è un dono imposto dall’alto in una lingua straniera da un padre facoltoso, ma una pratica quotidiana di smantellamento delle certezze. Da un lato implica la spinta a voler sapere tutto, cannibalizzare, appropriare, assorbire. Dall’altro significa dimenticare, restituire, essere coscienti della propria prospettiva, richiudere, tacere. È connessa a un tipo di amore estraneo alle relazioni di potere e al possesso. Un amore diverso che non prevede l’annullamento, che non oggettifica, piuttosto libera le persone e le cose dal loro statuto ontologico. La lingua capace di metterla in atto è sconosciuta, intima, complessa, emotiva. Io cerco di operare una sintesi non esaustiva ma silenziosa e allusiva. Le scelte che compio nel mio processo pittorico, i materiali e le tecniche che uso, riflettono in maniera intuitiva questa complessità e le problematiche da cui è generata ma sono leggibili solo in potenza. La pittura mi permette di attuare una serie di salti logici che avvengono in una zona esterna, un fuori non codificabile con i parametri normativi della coscienza discorsiva. La trasformazione che innesco riguarda in primo luogo la mia coscienza. Quello che resta a disposizione di chi guarda è la superficie bidimensionale del quadro. Dipingere significa essere lenti e veloci, scientifici e inesatti, stupidi e intelligenti, paraculi e puri, schizofrenici e individuati, superficiali e profondi, naïf e cinici, connessi e isolati, tutto insieme. L’osservatore coglie tutto di colpo, e credo si possa dire che questo sia il meccanismo alla base della rivelazione».
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Caterina Silva_impressione 2, 2017, pigment, spray-paint, oil, ink, barley, soil and dust on canvas, 100x150cm, Photo Courtesy Andrea Veneri
Non hai semplificato, ma hai parlato con estrema chiarezza di molte cose. Ritengo che uno degli snodi essenziali del tuo discorso, e dell’analisi della situazione in cui siamo, sia nel fatto che il capitalismo neo-liberale rappresenti una forma diversa e non meno assolutistica di colonialismo. Forse non siamo più, o amiamo pensare di non essere più, in una visione occidentocentrica, ma è evidente come i sistemi politici, sociali e culturali siano dipendenti da una struttura economico neo-liberale che proviene e dipende dall’Occidente, e che evidentemente mantiene un assetto patriarcale. Come giustamente dici, l’arte, l’industria culturale, ne è parte integrante e aggiungerei sottomessa. Nonostante ciò, anche io penso sia potenzialmente in atto una libertà nuova, che però ha sostanziali possibilità di essere, di esprimersi, solo ai margini del sistema, costituendosi senz’altro come un problema per sé ma non mi pare altrettanto per il sistema. La pittura è a suo agio e perfettamente coerente a questa marginalità. Credo che lo sia, come dici anche tu, per la capacità di restituire un’intuizione della complessità, avendo la capacità di agire su quei filamenti di senso che, quasi invisibili e silenziosi, connettono la molteplicità dei frammenti che sono la fenomenologia del nostro quotidiano. Ma vorrei farti due domande. La prima riguarda più un senso generale del tuo stare nel mondo, e ha a vedere con la questione del genere. Io concordo con quanto sostiene Gayatri Chakravorty Spivak, che il divario di genere debba essere oggi affrontato in termini di distanza tra classi sociali. Non credi che sia, come dice la Spivak, la ”subalternità” ad essere il problema principale da cui conseguono gli altri, e non è questa subalternità, economica e quindi classista, che determinano molte delle problematiche dell’attuale sistema dell’arte? La seconda domanda riguarda tutt’altro, e ha a che fare con il concetto di rivelazione, qualcosa che è inevitabilmente legato al divino e che altrettanto inevitabilmente riporta alle riflessioni e alle lezioni sul tema di Schelling. Nei termini più laici e più nostri, cosa coglie secondo te l’osservatore? Qual è oggi l’aspettativa che ha verso l’arte? E la rivelazione avviene quando quest’aspettativa coincide con quella dell’artista?
«Non sono sicura di essere in grado di ricondurre il discorso sulla subalternità in Spivak alle problematiche del sistema dell’arte. Vedo le condizioni per costruire il ragionamento ma ho paura di usare parole che so di non poter usare. Posso provare a identificarmi perché so cosa vuol dire non avere voce. Una parte del mio processo creativo è legata a un meccanismo di auto-sabotaggio che mi porta a cercare quello che non è possibile esprimere. Qualcosa che io stessa non posso e non voglio conoscere e che quindi sfugge al codice simbolico di riferimento, qualunque esso sia. Ho paura della chiusura e della violenza , che ho conosciuto  e che sono determinata a non esercitare nonostante siano entrambe in alcuni casi una reazione necessaria. Preferisco azzerare il discorso e immaginare un essere liberato, disfatto, forse dolorosamente, dal suo statuto di “ready-made”. Tu dici che questa “libertà nuova [..] ha sostanziali possibilità di essere, di esprimersi, solo ai margini del sistema”. Ma il margine in cui tu vedi relegata questa libertà nuova smette di essere margine nel momento in cui spostiamo il punto di osservazione. Se il centro non è più riconosciuto in quanto tale, scompare l’idea di una periferia desiderante che vuole annettervisi. Io cerco di pensare in termini utopici. Il centro lo elimino con una formula magica. Se da un lato il prerequisito per immaginare una possibilità sembra essere il privilegio fornito dalla cultura e dallo studio, e quindi prerogativa di una determinata classe o genere, dall’altro la sua messa in pratica è un’operazione che può avvenire ovunque – e in parte sta già avvenendo – e il cui valore prescinde dalla narrazione che se ne può fare o dall’economia che può generare. Il mio ottimismo è radicale ma astratto e contraddittorio. Io non so quale sia l’aspettativa di chi cerca qualcosa nell’arte. Il mio osservatore ideale è forse quello che non ha un’aspettativa ma una mente attenta e vuota. Quello che faccio attraverso la pittura lo faccio in primo luogo per me stessa. Non voglio controllare quello che succede in chi guarda. Vorrei piuttosto mettere l’osservatore di fronte a un’apertura, generare spazio nella sua mente. Lasciare che si prenda la libertà o la responsabilità di produrre significati o non farlo. La rivelazione per me è un cortocircuito inaspettato in cui gli opposti coesistono e i nodi si sciolgono. La mente riesce ad accettare quello che succede senza codificare in linguaggio. Guardare un quadro diventa guardare un quadro. Non ha un senso ma non è senza senso».
Raffaele Gavarro

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