05 settembre 2017

La schiavitù va in scena

 

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Dietro il nostro titolo ambiguo si nasconde la nascita di un nuovo museo in Alabama, uno degli stati dell’America del Nord dove è stato più forte il problema dello schiavismo.
Ebbene sì, dopo le prese di coscienza di Paesi come la Germania o il Ruanda, che hanno costruito i cosiddetti “musei di coscienza” dedicati agli episodi più scuri della loro storia, da queste parti ora pare essersi raggiunta la maturità per mettere nero su bianco una questione scottante e mai del tutto digerita, della storia a stelle e strisce. Ad opera di Equal Justice Initiative (EJI), l’anno prossimo a Montgomery, Alabama, nascerà proprio il “From Enslavement to Mass Incarceration Museum”.
L’istituzione si concentrerà sul collegamento della schiavitù con la segregazione fino alle disparità, ben documentate, all’interno del sistema giudiziario penale americano di oggi. A servizio di questa narrazione, artefatti, dispositivi ad alta tecnologia, e una collezione di lavori di un vasto gruppo di artisti afro-americani moderni e contemporanei, tra cui John Thomas Biggers, Sanford Biggers , Elizabeth Catlett , Titus Kaphar , Jacob Lawrence , Glenn Ligon e Hank Willis Thomas .
Fondatore della EJI nel 1989, l’avvocato Bryan Stevenson ha raccontato ad Artnet il suo pensiero circa la possibilità di far nascere questo nuovo “museo di coscienza” solo oggi. 
«La schiavitù ha caratterizzato l’America nel XVIII e XIX secolo. Ha modellato la vita economica, politica e sociale del Paese, e in qualche misura la sua vita culturale. Siamo stati impegnati per anni a non parlare di questa eredità così devastante e ancora oggi, quando sei stato schiavo e sei terrorizzato dal linciaggio, non hai la capacità di raccontarlo», spiega l’avvocato. «Per lungo tempo la comunità afro-americana ha affrontato il trauma, il dolore e l’angoscia di questa storia, guardando solo avanti. Oggi è giusto anche liberarsi di questo peso».
Un po’ come avviene in Sudafrica, nei resoconti sull’Apartheid, o per quanto riguarda la guerra in Ruanda.  E l’arte? Poche fotografie dell’epoca che mostrano i segni delle violenze, anche sui corpi degli schiavi, mentre invece – appunto – molta tecnologia. Assicurano, per esempio, un’esperienza di transfert con un ologramma: quando ci si guarderà in una parete “magica” apparirà di fronte a noi la figura di uno schiavo, che parlerà dell’esperienza dell’attesa della propria vendita. «Abbiamo scoperto narrazioni incredibili. La tecnologia ci permetterà di creare esperienze che è possibile fare solo in luoghi come Disneyland», ha riportato Stevenson. 
Speriamo vivamente che sia davvero un po’ differente, e meno divertente. (MB)
Fonte: artnet.com

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