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Mektoub My Love: Canto Uno, film in concorso del regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, ci cala direttamente nel quotidiano di un gruppo di giovani amici e di una vasta famiglia, dal punto di vista di Amin, il protagonista interpretato da Shaïn Boumedine, uno studente di cinematografia, aspirante fotografo e, nel 1994, periodo in cui la pellicola è ambientata, sceneggiatore principiante. In questo primo capitolo non si capisce se Amin in realtà sia il regista stesso, se ne potrebbe sapere di più in futuro, nel corso dello svolgimento della trilogia ma, forse, non è questo il punto. Sembra invece che per tre ore scorrano immagini di una vita qualunque, senza un numero sufficiente di spunti interessanti. L’unico condimento a questa routine è un’esposizione esagerata e pressante di sederi femminili, specialmente quello della ragazza della quale è segretamente innamorato il protagonista, che ancheggia troppe volte in pose provocatorie e così pare che il regista abbia dimenticato la strada che noi donne abbiamo fatto per farci rispettare, anche attraverso le immagini riferite al nostro corpo. La parola Mektoub vuol dire destino, un senso importante espresso dal titolo, ma triste è il destino di un film che deriva solo da un vuoto di idee.
La pellicola Angels Wear White, diretta da Vivian Qu, parla invece di come una violenza sessuale subita da due ragazzine, in un hotel di una paesino costiero della Cina meridionale, venga insabbiata vomitevolmente, perché il colpevole è una persona “di riguardo” e le famiglie delle ragazzine non contano nulla. Costruito correttamente attraverso una visione distaccata ma attenta, è comunque un buon film ma potrebbe coinvolgere di più.
Stasera, venerdì, 8 settembre, ultimo giorno di proiezioni in concorso per il Leone d’Oro e si discute su chi vincerà cosa. Ognuno dice la sua ma si saprà solo sabato sera. Chissà. (Cristina Cobianchi)
In alto: photo credit Antonella Cazzador