10 ottobre 2017

TEATRO

 
Performativo, installativo, archivio. Intervista a Salvo Lombardo, in occasione di “Casual Bystenders” per Teatri di Vetro 11
di Paola Granato

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Salvo Lombardo è coreografo, regista e performer, nato a Catania nel 1986, vive a Roma. Interessato ad approfondire gli interstizi delle varie discipline dello spettacolo dal vivo, ha alle spalle un percorso di studi tra la facoltà di Filologia dell’Università di Catania e Discipline dello spettacolo a La Sapienza. Cofondatore di Clinica Mammut, nel 2015 ha attivato, presso il Molinari Art Center di Roma, il laboratorio Struttura fine, un percorso indipendente di formazione e approfondimento per danzatori e performer.  Lo abbiamo incontrato per parlare di archivio e coreografia in occasione della presentazione del progetto Casual bystenders a Roma per l’undicesima edizione di Teatri di Vetro. 
Il progetto racchiude un percorso installativo dal titolo B-side, che è stato presentato alla Fondazione Volume! in apertura del Festival, e la performance Casual bystenders che andrà in scena il 10 ottobre a Centrale Preneste.
Presenti a Teatri di Vetro due lavori che fanno parte dello stesso progetto, la performance Casual bystenders e B-side: è la prima volta che ti avvicini alla dimensione installativa? Cosa ti ha portato a creare questo percorso?
«Il progetto Casual bystanders, che nasce come un ciclo di azioni in spazi urbani e che poi ha dato il nome alla performance che ne è derivata, si è articolato tra il 2014 e il 2016. Questo orizzonte temporale così ampio ha fatto emergere la sua natura prismatica che di fatto si caratterizza per una combinazione di formati e linguaggi differenti seppure limitrofi. Nato come processo di archiviazione e di catalogazione del movimento e del gesto dei passanti in spazi pubblici, il lavoro ha suggerito immediatamente molteplici possibilità di restituzione e di configurazione di quell’esperienza. Per questa ragione io e Isabella Gaffè (che ha curato tra l’altro la documentazione video delle azioni urbane) abbiamo iniziato a lavorare parallelamente a B-side, pensando ad un percorso installativo che mettesse lo spettatore nelle condizione di ripercorrere, rivificare e incorporare a sua volta quel sistema di movimenti e gesti che nel tempo avevo collezionato; B-side, che è composto da un video, una installazione sonora, un archivio digitale e una performance è certamente l’anticamera dello spettacolo Casual bystanders, è una sua propagazione relazionale, letteralmente il suo lato B. Pertanto i due lavori, seppure pensati per avere una loro autonomia di fruizione sono complementari e fortemente correlati. Non è la prima volta che lavoro in questa direzione. Già in passato, con il gruppo Clinica Mammut, avevo avuto modo di approfondire (in parallelo alla produzione di spettacoli) le possibili connessioni tra una dimensione performativa e quella installativa. Quest’anno, inoltre, sempre con Isabella Gaffè e con l’interaction designer Giulio Pernice abbiamo creato anche una installazione in realtà aumentata per il Museo Mart di Rovereto, nell’ambito del Festival “Oriente Occidente”, partendo da interviste orali e gestuali raccolte durante un workshop aperto alla collettività di Rovereto».
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B-side, ph Laura Marcolini_Studio Azzurro Area Ricerca Progressiva 2016
Nella descrizione di entrambi i lavori l’archivio appare come centrale per la costruzione sia della pièce che delle installazioni: cos’è per te un archivio? Come mai hai sentito l’urgenza di creare questa raccolta che tu definisci “affettiva”? Come hai lavorato alla raccolta di questi materiali? Cosa ha voluto dire per te lavorare nello spazio pubblico?
«Il concetto di archivio è evidentemente molto complesso è comporta una serie di implicazioni. Diciamo che per quanto mi riguarda la pratica di archiviazione acquisisce senso dal momento in cui diventa performativa; dunque dal momento in cui diventa dialettica e intersoggettiva. Pertanto questa idea di archivio si sottrae ad ogni tentativo di conservazione e di “musealizzazione” del dato. Utilizzo non a caso spesso il termine esperienza perché esperienziale è stato tutto il processo di Casual bystanders e per questo “affettivo”. Non ho mai nutrito nessun desiderio di catalogazione oggettivante nei confronti della realtà osservata. Il mio corpo con le sue derive morfologiche, attitudinali ed emozionali è stato il dispositivo primario di raccolta del dato gestuale, che in secondo luogo si è impresso sulla carta diventando scrittura. Col tempo si sono sedimentate e sovrapposte una memoria muscolare e una memoria “letteraria” in riferimento agli stessi eventi osservati. In questo senso lavorare sullo spazio pubblico ha significato per me lavorare sulla non predeterminazione e sulla casualità dell’azione performativa, sull’occasionalità dell’attraversamento degli spazi e sull’emersione di micro-narrazioni dei corpi nel quotidiano modellando, per estensione, il concetto stesso di “Historia”».
Questi materiali che cosa diventano una volta rielaborati dalla composizione coreografica e incarnati dal corpo del performer?
«La ricomposizione coreografica del gesto archiviato ha rideterminato nuove narrazioni e nuove traiettorie dello sguardo. Ho lavorato alla performance Casual Bystanders collaborando con altre due performer (Lucia Cammalleri e Daria Greco), partendo con loro da uno sharing di brandelli di memoria motoria e gestuale. Insieme abbiamo incorporato ex novo tutte quelle informazioni cinetiche di natura derivativa e abbiamo cercato una modalità di restituzione che a partire dalla letteralità lasciasse spazio alle pieghe personali di ciascun performer. Il principio è stato dunque quello della trasmissione di una memoria del gesto. Nello spettacolo anche il suono è stato pensato come paesaggio attraversato. Parallelamente alla raccolta dei gesti ho raccolto anche un archivio sonoro ricavato da registrazioni ambientali e campionature sia in ambienti urbani che naturali. Questi frammenti sono stati poi ricomposti e sovrapposti a parti del brano Petite symphonie intuitive pour un paysage de printemps del compositore Luc Ferrari che nel 1973-74 ha creato questo componimento a partire da “suoni fissati” durante una scalata sull’altopiano Causse Méjean»
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Casual Bystanders, ph. Carolina Farina_Fabbrica Europa 2016
Quali sono le tue ossessioni nella ricerca artistica?
«Più che di ossessione parlerei di interessi e inciampi nella creazione. Mi piace pensare la mia traiettoria di ricerca come permeabile e così, di conseguenza, anche i temi che la nutrono. Tuttavia, al momento, c’è un interesse costante relativamente al rapporto tra percezione e reale, tra memoria del gesto e memoria del performer, tra originarietà e ripetizione».
Per finire tre domande che poniamo a tutti gli artisti intervistati. Una parola per descrivere il tuo lavoro:
«Poroso».
Il tuo libro preferito:
«Non sono in grado di risponderti. E sarebbe così anche se mi chiedessi la stessa cosa di un film o di un’opera d’arte o di un brano musicale. Per non parlare dei maestri. Ho una tensione costante allo studio ma rifiuto l’erudizione monolitica. Moltissime cose mi hanno influenzato o attratto in termini di pensiero ma definirei il mio rapporto con la conoscenza come circostanziale».
Se potessi scegliere un personaggio (della storia, dell’arte, della letteratura…) da invitare a cena, chi inviteresti?
«Sophie Calle per un aperitivo. Hannah Arendt a cena».
Paola Granato

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