17 ottobre 2017

Il rischioso gioco dell’arte. Elena Bellantoni ci parla del suo progetto al Rossini Art Space di Briosco

 

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Le dinamiche relazionali, il dialogo tra culture, il recupero memoriale sono alcune delle tematiche che informano il lavoro di Elena Bellantoni (Vibo Valentia, 1975), artista tra le più sensibili dello scenario italiano contemporaneo. Un nuovo progetto espositivo, visitabile fino al 29 ottobre al Rossini Art Space di Briosco, in Brianza, promosso dalla Fondazione Pietro Rossini e curato da Francesca Guerisoli, ne rivela i recenti approdi speculativi, tra riflessioni individuali e percezioni collettive. Il percorso, multiforme e transmediale, racconta i complessi rapporti tra oriente e occidente, passato e presente, parola e visione, mediante un approccio delicato e perspicace, tra il serio e il faceto, a cui da tempo l’artista ha abituato il suo pubblico. L’abbiamo incontrata per farcelo raccontare. 
Parola all’artista. Raccontaci il tuo nuovo progetto espositivo. Com’è nato e quali lavori lo compongono? 
«I give you my word, i give you my world nasce dall’urgenza di lavorare con le parole che “nominano” la realtà e le emozioni in cui siamo immersi. Il titolo del progetto evidenzia lo slittamento di significato tra i concetti di parola e mondo. Il dare la parola diventa la possibilità di aprire e manifestare un pensiero rendendolo visibile, diviene l’espressione rassicurante di prendersi un impegno con qualcuno e quindi di entrare in relazione. Il fil rouge che tesse tutta la mostra è il linguaggio, la relazione, l’Altro, attraverso dinamiche di “gioco”. Attraverso il dialogo lo spettatore è invitato ad entrare in relazione: la parola diventa mondo, il terreno di gioco è il campo dell’arte in cui mi fronteggio con chi decide di partecipare. Per questa mostra personale ho pensato di sviluppare una serie di nuovi progetti site specifc, accompagnati dalla mia produzione degli ultimi due anni – tra cui Parole Passeggere, Parole Resistenti, Parole Cunzate ed il video Maremoto – realizzando visivamente un percorso sul rapporto tra corpo, relazione, scrittura ed immagine. La nuova produzione consiste nella costruzione di due nuove installazioni, una piccola scultura in ceramica ed un’installazione audio-ambientale. Le parole accompagnano le tre performance, ne cuciono il tessuto emotivo, mentre le installazioni-oggetto mettono in moto l’elemento della riflessione intorno al gioco». 
“L’Arte è un gioco rischioso” affermi. Quali sono i rischi che lo spettatore corre nella fruizione del tuo lavoro? 
«Non è sempre facile tracciare i contorni del nostro mondo interno attraverso il linguaggio. Per questo parlo di rischio. Le parole hanno un potere enorme: quello di dare speranza, di far ridere, ma anche di ferire e di togliere la speranza. Il mio non è un intento di natura psicanalitica ma una rappresentazione visiva e simbolica di un processo, in cui la comunicazione ed il linguaggio sono il mezzo e la forma. Dal mio punto di vista l’Arte è un gioco rischioso e riguarda in qualche modo l’attitudine infantile di stare al mondo attraverso la sperimentazione e la scoperta. L’età dell’oro (2017) è una nuova serie composta da due installazioni incentrate su gioco, infanzia e arte. L’installazione è costituita da un dondolo che ha, alle due estremità, due coltelli; un’altalena che nella sua seduta presenta un tappeto di chiodi simile a quello dei fachiri. Sono entrambi dei giochi impossibili per lo spettatore, invitato ad avvicinarsi, ma difficili e pericolosi da praticarsi». 
Il tuo è un approccio multimediale all’arte. In fase progettuale cosa determina la scelta mediale? È legata alle scelte espressive dell’artista o a modalità percettive del pubblico? 
«Questa mostra è una “piccola retrospettiva” che mette in movimento tutte le mie anime: performativa, video, installativa e anche sonora. Ho presentato, ed esempio, Effetto Butterfly (2017). Al centro del lavoro è il campo da tennis, che si colloca tra gli spazi del Rossini Art Site e l’area della casa della famiglia Rossini. Ha voluto soffermarmi su un territorio di confine tra lo spazio pubblico e quello privato. Gli spettatori sono invitati ad entrare e partecipare ad una partita invisibile. Qui, omaggiando la scena finale di Blow up di Michelangelo Antonioni, il suono di una partita di tennis scandisce le battute di giocatori assenti, a cui il pubblico si sostituisce occupandone lo spazio. Le mie scelte espressive nascono non dal pubblico ma dalla mia urgenza interna, da un’immagine che ha bisogno di venir fuori. Attraversare i miei lavori significa fare esperienza, entrare in un percorso di natura poetica. Il mio corpo è lo strumento con cui scrivo, incido, riprendo, disegno, interagisco con questo wor-l-d». 
In home: Impero Ottomano, 2015-17, performance 
In alto: L’età dell’oro 2017, veduta dell’installazione

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