19 ottobre 2017

Fiac & Co/5. Versailles nel ghiaccio. Un Voyage d’Hiver nel tempio della bellezza francese

 

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Siamo nel tempio della bellezza francese, circondati dai fasti della Reggia di Versailles e anche le condizioni metereologiche sembrano voler propiziare il nostro tour, con un sole primaverile che scherza con le suggestioni gelide di Voyage d’Hiver. Per la decima commissione dedicata all’arte contemporanea, Versailles cambia decisamente orientamento e, dopo le leggendarie edizioni affidate a quei nomi in grado di reggere il peso di un one-man-show anche in un contesto del genere, vedi Jeff Koons, nel 2008, Anish Kapoor, nel 2015, oppure Olafur Eliasson, nel 2016, si passa a una nutrita rosa di 17 artisti di generazioni e formazioni diverse, tutti chiamati a esprimersi sul tema dell’inverno da Jean de Loisy, Yoann Gourmel e Rebecca Lamarche-Vadel, rispettivamente direttore e curatori del Palais de Tokyo, e da Alfred Pacquement, commissario per l’arte contemporanea di Versailles. Questa volta, inoltre, il confronto non è con gli spazi interni o immediatamente prospicienti alla colossale architettura ma con il parco, che comunque non si può che descrivere come magnifico, tra il Bosquet de l’Arc de Triomphe e il Bosquet des Bains d’Apollon, camminando nei pressi del Passage du Labyrinthe e sull’Esplanade du Char d’Apollon. Immerse nei colori delle foglie che diventeranno sempre più crepitanti e nella bruma della campagna francese, affiancando le statue classiche e neoclassiche che popolano il giardino, ecco le opere di Marguerite Humeau, David Altmejd, John Giorno, Mark Manders, Dominique Petitgand, Jean-Marie Appriou, Cameron Jamie, Hicham Berrada, Ugo Rondinone, Sheila Hicks, Tomás Saraceno, Anita Molinero, Louise Sartor, Oliver Beer, Rick Owens e Stéphane Thidet
Il primo impatto non è molto forte, la prima impressione è di una integrazione in tono minore tra il contemporaneo e il classico ma, con l’incedere del percorso espositivo, si scoprono alcuni ottimi esiti. Come quella di Dominique Petitgande che in Tout est bouleversé gioca con le suggestioni sonore, con mezze parole e risate, frasi delle quali non si riesce a seguire l’inizio e la fine, diffuse lungo il Bosquet du Dauphin. Con Hicham Barrada si passa dalle parole al silenzio, perché nel Bosquet des Dômes, la giovane artista marocchina – che nel 2013 è stata ospitata a Villa Medici, sede dall’Accademia Francese a Roma – edifica Matrice Minérale, un’affascinante struttura a metà tra tempio e laboratorio, con vasche nelle quali sono immersi elementi organici che sembrano disciogliersi per qualche strano procedimento chimico o alchemico. Ugo Rondinone, tra gli artisti preferiti dai francesi, si insedia nel posto d’onore, allestendo la sua opera, una grande circonferenza spinata, proprio nei pressi della famosa scalinata della Reggia, sull’Esplanade du Char d’Apollon, lo spazio in cui Kapoor aveva allestito la contestatissima Dirty Corner. Piacevole anche il lavoro di Oliver Beer, astro nascente dell’arte british, che nel 2016 ha partecipato a una collettiva al Pompidou a cura di Christine Macel. Anche lui opta per un ambiente sonoro, con microfoni sospesi che trasformano il Bosquet de la Girandole nel preludio di un thriller, con un ritmo scandito da passi cadenzati e battiti cardiaci. Decisamente sul pezzo Rick Owens che, nel Bosquet de la Reine, scolpisce una grande scultura di ghiaccio, con le candide forme di sedie, porte e pianoforti, bloccate in una precisa fase del processo di liquefazione. Il 7 gennaio, quando la mostra finirà, saranno ancora così? E a noi, adesso, cosa rimane? 
Certe soluzioni sembrano essere state indovinate ma affidare a tanti artisti diversi il confronto con un ambiente così difficile, rischia di disperdere le energie e le attenzioni. Una sensazione che, in Italia, abbiamo conosciuto bene alle varie Biennali.

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