24 ottobre 2017

L’algoritmo è mio amico. Alla Bevilacqua La Masa, una mostra sui pionieri dell’arte generativa

 

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L’algoritmo è tutto intorno a noi, negli smartphone e nei personal computer. Un procedimento sistematico di calcolo dei nostri interessi, che ricorda ciò che abbiamo visto, ci propone soluzioni, offre prospettive che non avevamo considerato. E prima e più cupamente di tutto ciò, l’algoritmo era un termine legato alla terribile esperienza delle ore di matematica delle scuole. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato anche strumento creativo, linguaggio della fantasia e libero da schemi. Eppure è così e la mostra “Algorithmic Signs” ne dà la prova del nove, attraverso le opere di Ernest Edmonds, Manfred Mohr, Vera Molnár, Frieder Nake, Roman Verostko, ovvero, gli algoristi, i cinque pionieri della storia dell’arte generativa e digitale, dal 1960 a oggi. La mostra, a cura di Francesca Franco, in collaborazione con Stefano Coletto e promossa dalla Fondazione Bevilacqua La Masa, sarà visitabile fino al 3 dicembre, nella sede della Galleria di Piazza San Marco. 
Edmonds analizza i sistemi matematici e computazionali facendo interagire la pittura e la systems art, il colore e la costruzione digitale dell’immagine. Mohr, dopo aver subito l’influenza delle teorie sull’informazione di Max Bense, nei primi anni Sessanta, passa dall’espressionismo astratto alla geometria algoritmica generata dal computer, che porta al Museé d’Art Moderne di Parigi già nel 1971. Anche la ricerca di Nake può essere ricondotta agli studi di Max Bense, che partecipò alla prima mostra di computer art alla Biennale di Venezia del 1970. Invece, alle forme semplici della natura ibridate ai temi geometrici, si ispira Vera Molnár, una delle pioniere dell’arte digitale e algoritmica. Singolare il percorso di Verostko, che abbandonò l’ordine benedettino nel 1968 e iniziò a frequentare il CAVS-Center for Advanced Visual Studies al MIT, l’Istituto di Tecnologia del Massachusetts. 
Nell’ambito della mostra, sarà organizzato un programma di conferenze e di dibattiti, per capire che tipo di relazioni possono intercorrere tra le pratiche artistiche e gli strumenti della tecnologia informatica e digitale, fornendo alcune chiavi di interpretazione di quel processo di radicale trasformazione culturale, iniziato silenziosamente negli anni ‘60 e ora diffusosi in tutti i campi della conoscenza. E magari potreste anche rivalutare il vostro professore di matematica.
In home: Manfred Mohr, P-21 Band-Structure, 1970. From Carroll / Flecther Gallery, London
In alto: Roman Verostko, Green Cloud 

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