28 novembre 2017

Panorama di una Biennale che chiude. Con un brindisi ai numeri e ai progetti futuri

 

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La Biennale di Venezia giunge a conclusione in una giornata di freddo e di pioggia, che non impedisce tuttavia a centinaia di visitatori di rimanere in fila per ore, per poter entrare nel Padiglione tedesco e vedere Faust di Anne Imhoff, la performance rivelazione e insieme capolavoro, che connette in un’unica vertigine poetica l’antico teatro greco al teatro sperimentale, al cinema, alla letteratura, alla musica contemporanei. Nella Sala d’Armi delle Corderie, qualche ora prima che il finissage venisse celebrato nella sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, con danze scatenate e un magnifico buffet, la direttrice di questa cinquantasettesima edizione, Cristine Macel, e il presidente della Fondazione La Biennale di Venezia, Paolo Baratta, hanno parlato ai giornalisti in una conferenza stampa dal tono informale, allestita attorno al tavolo che, per sette mesi, ha visto artisti e visitatori cenare insieme e discutere d’arte, del suo farsi, di opere e del loro senso, una modalità di relazione che la Biennale esperisce nel solco di analoghe pratiche, come quella, pionieristica, varata anni orsono dal Festival della letteratura di Mantova. 
È Baratta soprattutto a condurre il discorso sugli esiti di questa edizione che ha contato 65mila visitatori, con un incremento rispetto alla passata edizione del 23% di presenze, incremento che lo stesso Presidente riconduce alla crescita dell’interesse nei confronti dell’arte contemporanea e alla partecipazione di differenti figure coinvolte in questa macchina veneziana, come i 35mila studenti venuti in Biennale con i loro insegnanti, o gli studenti universitari che hanno collaborato a una didattica dell’arte efficace e proficua per tutti (qui i numeri ufficiali). E mentre qualcuno gli chiede dei rapporti tra Art Basel e la Biennale, Baratta risponde tosto che Basel «nasce sul nido del cuculo della Biennale», e che quando la Biennale decise di spostare la propria data di apertura, Basel protestò ma inutilmente. Fa molto piacere in verità sentire risposte come queste di Baratta, poco propenso a farsi intimidire da chicchessia e deciso, invece, a sottolineare che la Biennale richiama visitatori e grande interesse nel mondo grazie all’aiuto della stampa ma senza neanche fare pubblicità, tranne quel poco «quasi da festa di paese» in Venezia stessa. 
Così si conclude la Biennale di Cristine Macel, “Viva arte viva”, che nel titolo già preannunciava che ci fosse in giro nel mondo arte viva e arte morta. In realtà, volendo direzionare la riflessione e l’occhio sull’opera, più che sulle dinamiche finanziarie cui l’arte è sottoposta e di cui è promotrice, Macel ha dovuto, come ogni direttore della Biennale, mediare tra la necessità oggettiva di raccogliere un budget che le consentisse buoni raggiungimenti e il desiderio di focalizzare le problematiche critiche che le stanno a cuore. E per diversi aspetti è riuscita in questo intendimento, portando alcune novità, non gradite a molti ma utili, come anche la drastica diminuzione dei collateral, che quest’anno hanno esibito ottime mostre in modo omogeneo e senza cadute di qualità. In questi giorni a Venezia si imballano opere, si smontano luci e allestimenti, un po’ di malinconia in questa città di meraviglia che in inverno è ancora più incredibile. 
Tuttavia curatori, artisti, giornalisti e organizzatori proprio in questi giorni se la spassano tra feste e bacari e, tra un prosecco e l’altro, s’incontrano per parlare di progetti e collaborazioni e futuri padiglioni e futuri collateral. (Eleonora Frattarolo
In alto: Paolo Baratta e Christine Macel, foto Andrea Avezzi. Courtesy La Biennale di Venezia

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