29 novembre 2017

Non è solo un gioco per bambini. Jean-Yves Jouannais ci parla dei castelli di sabbia, a Grand Tour di Palazzo Grassi

 

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Si è appena conclusa, a Palazzo Grassi, la terza edizione di “Grand Tour”, il viaggio alla scoperta dei musei del mondo, senza muoversi da Venezia. Dopo la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e la Fondazione Palazzo Strozzi, questa volta è stato il Centre Pompidou di Parigi a presentare il proprio rapporto con il pubblico, attraverso le attività dei servizi educativi e didattici. Il programma è iniziato con una tavola rotonda sulla mediazione culturale nelle istituzioni museali, moderata da Patrice Chazottes, del Dipartimento Direction des publics del museo parigino, e da Alexis Sornin, del Dipartimento Educazione di Palazzo Grassi-Punta della Dogana. Quindi, i visitatori hanno potuto provare una nuova esperienza museale, con una visita guidata alla mostra di Damien Hirst a cura del team del Centre Pompidou di Parigi, in collaborazione con il Dipartimento di Educazione di Palazzo Grassi. Clou del progetto, il grande laboratorio di sculture effimere, in compagnia dello scultore canadese Dale Murdock, al quale il museo francese ha dedicato una personale, tra il 2015 e il 2016. Quattro tonnellate di sabbia hanno trasformato lo spazio del foyer in un paesaggio litoraneo, in cui grandi e piccini hanno potuto dare libero sfogo alla propria fantasia. Il critico d’arte Jean-Yves Jouannais ha presentato il suo testo Les Barrages de sable. Traité de castellologie littorale, un’indagine sulla complessa simbologia legata al castello di sabbia, dall’ancestrale fascinazione nei confronti della dimensione bellica al rito di infanzia. Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare di cosa si tratta. 
Cosa serve per costruire il castello di sabbia perfetto e perché continuiamo a costruirli a ogni età? 
«Non mi interessa la perfezione nella costruzione di castelli di sabbia. Quello che intendi, immagino, sono quei concorsi di belle e pretenziose architetture di sabbia in cui si tratta di ricreare meticolosamente il castello di Chambord sulla spiaggia del Touquet (Tipica spiaggia dello stereotipo francese, ndr) o il Palazzo Grassi su una spiaggia del Lido…No, piuttosto mi sono concentrato su quelle costruzioni mal fatte, su queste brutte architetture realizzate in famiglia e che per ambizione non hanno altro che resistere alla marea, di fare la guerra al mare. E per questo motivo che il mio libro si intitola Dighe di Sabbia, in omaggio al romanzo di Marguerite Duras, Una diga sul Pacifico. Perché continuiamo a confezionare delle dighe di sabbia in tutti i momenti della nostra vita è una domanda interessante, ma ce n’è un’altra che mi appassiona di più. Si tratterebbe di sapere perché e come questo strano rito si trasmetta di generazione in generazione. Sono arrivato a pensare che molti uomini hanno desiderato avere dei bambini al solo fine di poter continuare, da adulti, a costruire queste vane fortificazioni…» 

Sotto quali forme si rinnova il rito della costruzione del castello di sabbia? 
«Non esiste una re-invenzione di questa pratica, perché essa è infatti fondata nella tradizione. Avevo l’intuizione che la costruzione delle dighe di sabbia contenga una verità simbolica fuori dalla norma. Ho desiderato cercare l’origine dell’iniziazione a questo mistero. Così questa inchiesta aveva per ambizione di risalire alla fonte di una pratica vista come innocente e prosaica, di identificare il mito da cui sarebbe nata questa attività, da molto tempo orfana. Costruire un castello di sabbia sarebbe un rito sopravvissuto al suo culto, una parola smarrita lontana dalla sua etimologia, come una prosperosa specie vegetale, sola, fuori dal suo habitat, una litania divenuta un rumore di fondo. Quando il filosofo Georges Didi-Huberman si stacca dal pensiero di Aby Warburg l’intuizione dei “movimenti fossili” offre specificatamente una voce d’ingresso non solo ai castelli di sabbia, ma anche all’infinito erbario di gesti e costruzioni, sempre così semplici e simili, che concorrono alla cultura umana. Quale memoria psichica, ma allo stesso tempo umana, rende possibile questi gesti?» 
Nelle tue ricerche hai affrontato anche il tema della guerra. C’è qualcosa in comune tra questo ambito e quello del castello? 
«Sarei tentato di rispondere con un gioco di parole sicuramente intraducibile in italiano. Ma in francese è conturbante constatare che la parola barrage (diga) è l’anagramma della parola bagarre (rissa, azzuffata). Vi è nell’Iliade una fenomenale diga di sabbia costruita sul litorale troiano per proteggere le navi achee. Questa fu come la frontiera di un paese in un altro paese, una diga che non fu la guerra stessa ma attorno alla quale questa oscillo per dieci anni. Penso ugualmente alla presa di Mantinea da Agesipoli, re di Sparta, nel 385 A.C. Mantinea era costruita in una zona paludosa. Gli assalitori non potevano far avanzare le loro macchine da assedio. Agesipolis propose una soluzione che ebbe successo. Si trattava di bloccare il corso di un fiume, L’Ophis, con una diga, e di deviare le sue acque verso la città. Appena questa fortificazione fu fatta, le fortificazioni in mattoni crudi di Mantinea si trovarono sott’acqua si indebolirono e la fecero crollare. Pausania il Perigete scrisse che i mattoni si dissolsero nell’acqua come cera al sole. Questo è uno dei punti di partenza della mia inchiesta sui numerosi legami fra le dighe di sabbia e la guerra che risalgono fino a noi».

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