05 dicembre 2017

CURATORIAL PRACTICES

 
Il Mormorio della moltitudine artistica, nella Biennale degli Urali. Parola al curatore Dmitrii Bezouglov
di Camilla Boemio

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La Ural Industrial Biennial of Contemporary Art è una delle Biennali più interessanti ed internazionali del panorama artistico. Questa edizione è orientata verso una serie di temi convergenti la quarta rivoluzione industriale nella quale le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno completamente trasformato il modo in cui viviamo, e lavoriamo, proponendo nuove forme di alfabetizzazione per comprendere il futuro attraverso la rete. Il progetto curatoriale si chiede in che modo le pratiche visive possono essere basilari per comprendere i linguaggi e le interfacce di questa trasformazione in atto.  
L’altro elemento di grande interesse di questa Biennale è dato dall’avere reso una zona periferica dedita solo al lavoro un’area di studio e di cambiamento culturale nella quale da quattro edizioni un numero considerevole di curatori, teorici ed artisti da tutto il mondo è invitata a sviluppare tematiche di rilievo. I progetti e le mostre sono articolate in un territorio molto ampio, nel quale sono coinvolte molte città. Gli Urali possono essere considerati una nuova Bilbao che non si lascia annichilire dai cambiamenti dell’economia. Ne parlo in modo approfondito con Dmitrii Bezouglov il curatore della Intellectual platform e del simposio della 4th Ural Industrial Biennial of Contemporary Art. 
La Biennale esplora il concetto di industria sia come patrimonio che come pratica attuale nella regione degli Urali. La Biennale utilizza l’arte come risorsa rilevante, integrando la regione con l’aggiunta di elementi complementari al contesto della scena artistica internazionale. Puoi raccontarci di più di questa straordinaria manifestazione che ho notato alcuni anni fa?
«L’idea di base della Biennale era piuttosto semplice fin da quando abbiamo iniziato a strutturare le fasi progettuali: si trattava di attuare un duplice aspetto, esplorando i siti abbandonati dall’industria (che sono di solito occupati dalla mostra principale) e i siti delle fabbriche e degli impianti funzionanti (dove hanno luogo i progetti speciali). Nel corso degli anni dalla prima Biennale del 2010, l’elaborazione di questa idea è diventata sempre più precisa, principalmente grazie al riconoscimento del progetto all’interno della regione di Sverdlovsk. Altre fabbriche ed aziende hanno preso coscienza del progetto e sono state più propense alla discussione, interpretandola come un ancoraggio simbolico all’interno della regione. Questo processo ci porta alla quarta edizione, che segna la prima collaborazione con l’attuale società di sviluppo edile, che ha permesso alla Biennale di espandersi negli Urali nella fabbrica abbandonata per un anno, che, ha visto tra l’altro riprogrammare l’accordo di collaborazione estendendolo ad un tempo più lungo del previsto. La Biennale funziona come un faro che invia segnali sia dall’interno che all’esterno della regione; è una miscela di ambizioni sia locali che globali che sono state catturate magistralmente nel saggio Murmuring of the Artistic Multitude di Pascal Gielen».
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Alexandra Paperno, On the Sleeping Arrangements in the Sixth Five-Year Plan (more on work and more pictures — see her website) (Main project of 4th Ural Industrial Biennial @ Ural Instrument-Making Plant), All photos to be credited as ‘Photos by ZOOM ZOOM Family’.

Adoro la tua ultima citazione del testo di Gielen, noto professore associato di sociologia dell’arte. La sua ricerca si concentra sulle politiche culturali e sui contesti istituzionali dell’arte. Il suo rigoroso studio può realmente illuminare le istituzioni. Adesso cambio argomento chiedendoti delucidazioni sulla pratica curatoriale adottata dal curatore della Biennale di questa edizione: il Portoghese João Ribas. La sua mostra al MIT “In the Holocene” sull’arte, la scienza e la speculazione è stata un successo; ha anche vinto quattro volte in modo consecutivo, dal 2008 al 2011, l’AICA Exhibition Awards.
«È innegabile con l’ultima mostra curata da João Ribas, la Biennale spera di ottenere più riconoscimenti dalla scena internazionale. Il suo metodo ha una narrazione rigorosa, precisa ed impeccabilmente articolata. Allo stesso tempo, il programma e l’intera strategia di comunicazione della quarta Biennale lo rende forse il più accessibile per coloro che non si sono mai visti come i destinatari dell’arte contemporanea. Con un tono amichevole e con dei programmi educativi inclusivi, questa Biennale sembra superare i segni di classe che, secondo Bourdieu impediscono alla piccola borghesia di sperimentare l’arte alta. Vorrei anche segnalare la miscela delle attività artistiche e turistiche, che è stata sviluppata all’interno del programma Artist-in-Residence Route, prevedendo una serie di visite guidate in ventitre città della regione di Sverdlovsk; le visite sono state delineate in base al programma Artist-in-Residence, concentrandosi molto sugli elementi primari della natura e sulla mitologia locale. Questa miscela di accessibilità e di rimandi nei quali inscenare dei messaggi intrecciati all’interno della mostra principale, rende l’argomento “nuova alfabetizzazione” trattato da varie angolazioni».
Per l’appunto la quarta biennale si chiama “New Literacy” ed è dedicata al lavoro e alla creazione del prossimo futuro, anticipando i cambiamenti sociali, economici e culturali. Come ritieni si sia evoluta la Ural Industrial Biennial of Contemporary Art in queste ultime edizioni?
«Le edizioni precedenti, lasciando da parte la prima edizione, focalizzavano l’analisi sui sensi e le sensazioni dell’individuo esplorando dei temi controversi. Iara Boubnova ha curato per la seconda edizione della Biennale un’analisi introspettiva, e la mostra per la terza Biennale a cura di Li Zhenhua parlava dell’essere umano rinchiuso nel flusso delle percezioni grezze. La quarta, che assomiglia alla prima edizione della biennale, esplora le infrastrutture all’interno delle quali esistiamo. Come è possibile che i cookie file diventino la valuta corrente? Chi sta capitalizzando l’attenzione dei singoli individui? Come è possibile che così tante applicazioni inducano la stessa, brutale esperienza di ansia personale? João Ribas ha messo in discussione gli elementi che consideriamo personali, ed è riuscito a scoprire i principi unificanti di questa ansia post-informativa, reindirizzando anche il website degli Urali e della città di Ekaterinburg».
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Babi Badalov, RainCarNation (Main project of 4th Ural Industrial Biennial @ Ural Instrument-Making Plant)All photos to be credited as ‘Photos by ZOOM ZOOM Family’.

Potresti introdurci l’Intellectual platform che stai curando alla 4th Ural Industrial Biennial of Contemporary Art?
«Sono stato il curatore di due eventi speciali già realizzati nel programma della Biennale; quindi posso finalmente valutare i risultati. Il primo è stato il simposio “Everyday Revolution” (purtroppo abbiamo pubblicato solo la versione in lingua russa nel sito web), ed è stato durante la settimana del vernissage. È stata una breve visione della postmedialità all’interno della quale esistiamo. Deliberatamente ho invitato persone che non hanno implicazioni dirette con il mercato dell’arte contemporanea; focalizzando la discussione verso contributi sulla teoria dei media e sulla filosofia della tecnica, ricollegandomi agli argomenti esplorati della mostra curata da João. Lev Manovich ha parlato di intelligenza artificiale e di controllo meccanico, in competizione con i curatori umani; Yuk Hui, uno studente di Bernard Stiegler, ha presentato la sua interpretazione dell’alienazione marxista che presumibilmente sperimentiamo e ci ha suggerito di reintrodurci alle tecniche con cui lavoriamo, così da ritagliare nuovi scenari di interazione uomo-macchina. Geert Lovink dell’Institute of Network Culture ha parlato dell’alienazione e della solitudine causate dalle comunità colpite attraverso i social network. Con ogni relatore, volevamo insistere sulle questioni del capitalismo della piattaforma e dell’acquisizione dei nuovi strumenti. Il secondo evento è stato “Culture as an Enterprise” sviluppato nelle due giornate del 23 e del 24 Ottobre. Ed è stato un progetto congiunto realizzato con la Fondazione Vladimir Potanin; nel quale abbiamo deciso di esplorare gli effetti diretti e indiretti dei progetti culturali sulle economie delle città. Nell’ambito del tema “New Literacy”, abbiamo cercato di discutere nuove metodologie e strumenti per misurare gli effetti della cultura, invitando così molte aziende locali a prendere coscienza dell’importanza della “coesione sociale”, che potrebbe essere di valore maggiore rispetto ad un numero rigoroso di visitatori. Entrambi gli eventi sono alla base di molte altre attività educative ideate dai miei colleghi: dalla lettura ai gruppi dedicati alla poesia contemporanea ai seminari di sound design; tutti i programmi sono sviluppati nella sede della Biennale».
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ZHKP art collective, Job/Work (Main project of 4th Ural Industrial Biennial @ Ural Instrument-Making Plant) All photos to be credited as ‘Photos by ZOOM ZOOM Family’.

C’è anche un ricco programma parallelo. 
«Il programma parallelo ha una serie di progetti che sono stati scelti dal comitato di esperti, il cui obiettivo principale è sempre stato quello di annettere inediti collegamenti con l’argomento “New Literacy”. Segnalo in modo particolare due progetti, “Worldbuilding” a Nizhny Tagil e “Between Fatigue”; corrispondono in pieno all’argomento analizzato, dal momento che entrambi affrontano il problema del tempo libero e del lavoro, del relax, e dell’incapacità di riposare».
Quanto è efficace l’arte come canale di cambiamento?
«Penso sia efficace quando è guidata da determinate condizioni sociali; l’arte diventa un canale evidente quando viene canalizzata da un’istituzione o da un gruppo di persone che sono in grado di negoziare, supportare e presentare adeguatamente il progetto. Devo ammettere di avere in merito una posizione molto istituzionale».
Cosa ne pensi della ricezione di ciò che è liberamente definito come arte socialmente impegnata? Pensi ci sia un dialogo rigoroso attorno ad esso?
«Riprendo il pensiero di Claire Bishop sostenendo che l’arte partecipativa potrebbe mescolare le cose e, se stai annunciando l’agenda sociale che affianca il lavoro, rischi di sminuire l’affermazione artistica che c’è dietro. Da spettatore credo fermamente l’opera d’arte debba parlare da sola e lasciarsi raccontare da coloro che potrebbero “leggere” in essa i contenuti sociali. Non è sempre la responsabilità del curatore o dell’editore a dovere fronteggiare le spiegazione, sarebbe come derubare all’osservatore l’interpretazione del lavoro!».
Camilla Boemio

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