12 dicembre 2017

OUTSIDER

 
Giovanni Bosco, ovvero i graffiti sui muri, dopo i muri di carcere, manicomio e isolamento. Ecco la sua storia
di Marcello Francolini

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Giovanni Bosco nasce a Castellammare del Golfo (TP) il 3 marzo 1948 e muore a Palermo il 1 aprile 2009. Trascorre la sua infanzia nelle campagne del paese e dopo la scomparsa del padre, all’età di nove anni, prende il suo posto di pastore. Proprio per il furto di alcune pecore, colto in flagrante, a ventidue anni finisce in carcere a Trapani e viene in seguito mandato al confino a San Benedetto del Tronto, nelle Marche, lontano dalla Sicilia. Fa il barista nei pressi di Trieste quando, nel 1977, apprende per caso che nella sua Castellammare i due fratelli sedicenni sono stati assassinati in seguito al furto di un’automobile: è il modo che ha la mafia di farsi giustizia quando qualcuno ruba, per ingenuità o spavalderia, alla persona sbagliata. Bosco è travolto dalla propria impotenza, dal dolore e dalla rabbia, dalle tribolazioni già patite, e qualcosa deflagra dentro di lui. Esplode, sviene, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico, forse subisce l’elettroshock. Tornerà nel suo paese dopo una vita travagliata, sul finire degli anni novanta, e i vicoli di Castellammare diventeranno i luoghi dell’espressione del suo disagio.
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Giovanni Bosco, courtesy ASSOCIAZIONE OUTSIDER GIOVANNI BOSCO
«Disigniciddi pe passarmi il tempo», questa la frase di risposta che Giovanni diede ai primi esploratori della sua stanza-studio-rifugio, quando gli chiesero spiegazioni di quei disegni così confusamente sparsi tra le pareti della stanza, che si mischiavano con le poche suppellettili, creando una continuità tra spazio quotidiano e colore. Fu, per chi li vide, come un’epifania. Quelle forme seppur varie, così ammassate tutte insieme catturavano l’attenzione, erano più che un “passatempo”: trasparivano una coerenza visiva tale da convincerli di aver scoperto un’artista a Castellamare del Golfo. Quegli esploratori erano essenzialmente ragazzi. Era il 2007 quando Salvatore Bongiorno, Claudio Colomba, Carlo Di Pasquale, Giovanni Navarra, Vito Ingoglia, fondarono il collettivo di videomaker ZEPstudio e realizzarono il primo documentario su Giovanni Bosco, “dottore di tutto”. Da quel momento seguirono altri fatti: nello stesso anno un fotografo francese, Boris Piot, si accorge della qualità delle sue opere, coinvolgendo il blog parigino dedicato all’Art Brut, “Animula vagula”, che inizia a diffondere le immagini su Internet. Nel 2008, Eva di Stefano e il suo Osservatorio Outsider Art di Palermo avviano un meccanismo di protezione dell’operato di Bosco. Lucienne Peiry, infine, acquista un centinaio di opere per la Collection de l’Art Brut di Losanna. Quest’ultimo atto sancisce il riconoscimento ufficiale. Il primo incontro Giovanni lo ha con il pittore locale Giovanni Battista Di Liberti. È lui il primo a riconoscerne del talento, supportandolo a praticare il disegno. 
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Giovanni Bosco, courtesy ASSOCIAZIONE OUTSIDER GIOVANNI BOSCO
Poi arriva un altro incontro che probabilmente convince sempre più Bosco a perseguire la pittura. Nell’estate del 2004, un fashion designer romano, Fabio Casentini, casualmente in vacanza, scopre i disegni di Bosco e inizia a collezionarli per circa un anno. Nonostante l’interruzione dei rapporti, la collezione attuale di Casentini – circa 200 opere – rappresentano il nucleo fondamentale del primo periodo dell’artista. Tornando ora al documentario, il pittore Di Liberti ricorda che la forza della pittura di Bosco risiedeva nella capacità duratura di trattenere le forme nella sua memoria. Ripensando a questa notazione mi torna in mente un saggio di Giuseppe Galetta uscito per la rivista di psicologia dell’Università di Bologna, sulla dissociazione creativa. La dissociazione creativa è uno stato alterato della coscienza a cui molti artisti hanno aspirato lungo il percorso delle avanguardie storiche del 900. È uno stato di allucinazione grazie al quale è possibile attraversare stati interiori della coscienza e tirare fuori immagini quasi inconsapevoli, dotate di una forma del tutto scarna, quasi incorporea. Giovanni Bosco era affetto da schizofrenia, venne rinchiuso in manicomio e forse per questo distacco “forzato” dalla realtà l’arte fu una via per rientrarvi. Ed è possibile che la dissociazione creativa sia la modalità del suo operato. In effetti costruì sui muri di Castellamare la sua storia e le sue conoscenze. Nei cuori ovoidali, spesso raffigurati con occhi, braccia e gambe, talvolta vi sono frasi, estratti di canzoni; figure “trasformiste” tatuate di nomi come una carta geografica, mappatura del corpo o, in alternativa, del territorio con le sue strade, paesi, contrade. Tra i tipi dei suoi personaggi ci sono le “visinicchie” e i “viparicchiu” con cui rappresenta talvolta la figura umana, dei “super-pupi” spesso corazzati quasi robotici con grossi falli. Forse, in questo modo, quando usciva al mattino, ripercorrendo quelle case, teneva stretti i suoi ricordi. Ma esponendoli, segnandoli nel tessuto urbano, si era anche creato un ambiente, forse un tentativo di una inclusione sociale spontanea. Col senno di poi possiamo dire si sia trattato di un esperimento riuscito se, proprio questi personaggi urbani, sono serviti come briciole su un tragitto, seguiti fino alla tana di Bosco da quei giovani esploratori con i quali poi tutto è re-iniziato. 
Marcello Francolini
Link di approfondimento:
Documentario di Ruggiero Maggi: vimeo.com/113115893

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