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L’icona natalizia giunge puntuale con le cronache, non solo del Belpaese. Quando qualche tempo fa, mentre passeggiavo in un parco protetto a Nord di Roma, all’improvviso me la ritrovai davanti, solitaria e incompresa e proprio per questo così potente ed evocativa, ne intuii immediatamente il potenziale oracolare. Essa parla il linguaggio allusivo e obliquo del mito, propriamente “inaudito”.
Consumato dal tempo e dagli accidenti atmosferici, questo avviso di pericolo d’incendio reca impressa una svastica color sangue, disegnata chissà quando e ormai quasi illeggibile. Ma non abbastanza da risultare cancellata alla vista. No, essa resiste tenacemente, pronta a riaccendersi come il fiammifero con il quale è sodale, mentre il combustibile è copioso nella foresta circostante. Inevitabile, infatti, fu leggere gli alberi radunati tutt’attorno come quella massa crescente di fascisti che negli ultimi tempi va moltiplicandosi a macchia di leopardo su e giù per la Penisola, qua e là per il Vecchio Continente, per un esercito di “boschetti sacri” che rischiano d’incendiarsi oggi come allora.
Che un fantasma si aggiri nuovamente per l’Europa, novella divinità affamata di olocausti? Non più di ebrei evidentemente, a cui l’Imperatore vuol donare addirittura la terra promessa, ma di immigrati è ovvio, questa moltitudine indistinta e sgradita come le zecche che si annidano ai piedi degli alberi, e che solo un fuoco altrettanto indifferenziato e pervasivo può sperare di purificare.
Quando l’arte la fanno i pruriti della popolazione e l’oscuro disegno del fato, può apparire più necessaria e ficcante di qualsivoglia invenzione artistica, perfino se a regalarcela è un arrugginito cartello della Forestale. Buon Natale dunque.
Roberto Ago