02 gennaio 2018

Mauro Staccioli, da Volterra al mondo. Il ricordo di Fabio Cavallucci

 

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Fabio Cavallucci ricorda Mauro Staccioli, scomparso nella notte tra il 31 dicembre e il 1 gennaio.
C’è nel lavoro di Mauro Staccioli un legame profondo con la sua terra, la campagna toscana di Volterra, dove era nato nel 1937, ma allo stesso tempo una spinta ad uscirne, a conquistare il mondo, tanto da creare un linguaggio internazionale della scultura che per vari decenni è sembrato uno dei pochi codici appropriati alla cosiddetta “arte ambientale”. Del primo fa parte soprattutto il rapporto con i materiali, la volontà di continuare ad usare pervicacemente i prodotti e i metodi dell’edilizia: il ferro, il cemento, la pietra, trattati sempre con un’antica sapienza artigianale, da esperto muratore. Della seconda, l’idea che il segno della scultura possa contaminare qualsiasi paesaggio, qualsiasi ambiente, sollecitando l’attenzione ormai poco vigile dell’uomo comune, in un concetto di arte capace di sviluppare, attraverso l’estetico, anche il progresso civile e sociale. 
Così, se agli esordi proprio a Volterra Mauro Staccioli sperimentò su larga scala le materie e le forme, realizzando una grande pionieristica mostra di interventi in città nel 1972 (che diede spunto a Enrico Crispolti per la creazione di quell’altro grande punto fermo nella storia dell’arte pubblica, non mai sufficientemente riconosciuto e studiato, che è stato Volterra ‘73), quelle forme hanno gradualmente invaso tutto il mondo. Dal La Jolla Museum di San Diego in California al Parco Olimpico di Seoul, dal Parco di Villa Celle di Giuliano Gori alla Djerassi Foundation a Woodside, di proprietà dell’inventore della pillola anticoncezionale, dalle scalinate dell’Harward Gallery di Londra ai Pirenei nel piccolo stato di Andorra, finendo, caso rarissimo tra le opere di arte contemporanea, persino in un francobollo di quello stato. 
Le geometrie, che inizialmente erano dure e minacciose, come macchine da guerra con spunzoni e artigli, riflesso delle lotte e delle battaglie urbane tra il finire degli anni Sessanta e i primi Settanta, si erano pian piano addolcite, allungate, divenendo curve insinuanti, come l’iperbole che svettava di fronte al vecchio edificio del Centro Pecci. O addirittura arrotondate – cerchi, sfere, dischi – collocati nei luoghi strategici della campagna, ad annotare un paesaggio, a correggere un punto di vista, come punteggiature la cui funzione non è di prevalere, ma di scandire, di sottolineare altri elementi, facendo un passo indietro di fronte all’imponenza e alla bellezza della natura. 
Gli amici artisti della sua generazione un po’ lo invidiavano, come l’artista che era sempre chiamato a fare l’apripista tutte le volte che veniva realizzato un parco di sculture. Chi, come me, ha avuto la fortuna di lavorarci, non può non riconoscerne la grande umanità, la generosità che gli faceva sempre trovare la soluzione adatta al luogo, sia sul piano estetico, che su quello sociale e non ultimo economico, aspetto fondamentale di relazione con la committenza. Come un antico artista rinascimentale, infatti, amava, in qualche modo esigeva, un rapporto forte con il committente, nell’idea che un’opera d’arte non è chiusa in sé, frutto di un pensiero astratto, ma è uno strumento per stabilire relazioni, per sviluppare idee e comuni basi di civile convivenza. (Fabio Cavallucci)

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