31 gennaio 2018

Binge Watching Mindhunter

 
“Mindhunter”. Dimmi come uccidi e ti dirò chi sei
di Gabriele Toralbo

di

Una serie tv, tratta dall’opera saggistica di uno psicologo. Noioso? No, se lo psicologo in questione è John E. Duglas. Il nome non vi dice niente? Per il momento sappiate solo che fu il primo a introdurre lo studio sistemico della psicologia criminale, per indagini su omicidi efferati e sequenziali. Se volete saperne di più, allora siete pronti per vedere Mindhunter. 
In questa serie, un giovane istruttore di reclute, Holden Ford, alter ego dello stesso Duglas e interpretato da Jonathan Groff, frustrato e demotivato ma sostenuto dal più anziano e disincantato Bill Tench-Holt McCallany, segue intuizioni e ricerche personali sullo studio degli omicidi. Darà inizio alla famigerata Unità di Scienze Comportamentali dell’FBI. La storia è ambientata negli anni Settanta ed è coinvolgente assistere alla claudicante coniazione di termini quali “serial killer”, “profili comportamentali”, “assassini sistematici”, ormai tanto abusati in ogni prodotto di genere. Da qui è cominciato tutto e il processo di indagine va all’inverso: se, nelle trame classiche, dai profili si risale all’assassino, qui, invece, i due complessi protagonisti dovranno intervistare i più noti e sanguinosi assassini d’America già rinchiusi o in attesa di pena capitale, per fondare i propri studi, fugare i preconcetti. 
«Si nasce assassini o lo si diventa?» 
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Mindhunter

Le interviste sono per dialoghi, interpretazione e ambientazione di altissimo livello, soprattutto quelle con lo stupratore pluriomicida Ed Camper, che non è valsa a Cameron Britton la nomination come miglior attore ai Satellite Awards, scatenando polemiche su tutti i forum. Tra una pizza con Brudos, (stupratore feticista che conservava scarpe e piedi delle sue vittime) e una chiacchierata con Speck (che uccise otto infermiere nella stessa notte), i due aiutano le ingenue polizie locali a prendere assassini insospettabili, mettendo un po’ di pepe alla vicenda e confermando l’efficacia dei loro studi. 
La storia potrebbe finire qui e, invece, l’occhio di David Fincher, che non ha girato tutti gli episodi ma è di fatto il Regista, ci accompagna a scrutare la vita intima e privata dei protagonisti, ci presenta le loro pulsioni, le nevrosi dovute ai rapporti coniugali e sociali, il dubbio sul limite tra piacere sessuale e depravazione, tra colpevole e vittima, giusto e sbagliato. Fincher è un regista geniale e visionario, un maestro del genere, come per Zodiac o per il più fortunato Seven, e qui può abbondare coi campi lunghi e i primi piani ostinati, per produrre un lungo film di dieci episodi dove il correre dei tempi è raccontato dalle musiche dei Toto, di David Bowie, dei Talkings Heads, dei Led Zeppelin, una soundtrack tanto apprezzata da diventare anche una fortunata playlist su Spotify, al punto che ci viene voglia di vedere le puntate tutte di filato. Sì, è consigliata la marathon. 
Non stupisce che, ancora prima del debutto ufficiale, Netflix avesse già firmato per la seconda stagione, mentre lo stesso Fincher ne ha annunciate cinque. 
Sedetevi comodi, quindi, e lasciatevi guardare nella testa. 
Gabriele Toralbo

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