22 febbraio 2018

Il MoMA e la politica culturale della Modernità

 
Il Museo che partecipa alla definizione della Storia, come luogo sociale e laboratorio del pensiero. Sfidando la politica. Note a margine sul convegno alla Fondation Vuitton

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Mentre il dibattito politico oltreoceano impegna tutti con una certa apprensione, l’America mantiene l’alta qualità culturale che conosciamo, per merito delle sue Istituzioni. Grazie ad una stretta collaborazione fra le due strutture  autorevolmente dirette da Suzanne Pagé e Glenn D. Lowry,  sono esposte fino al 5 marzo alla Fondazione Louis Vuitton di Parigi 200 opere provenienti dal Museum of Modern Art di New York, creato nel 1929.  
Secondo il primo direttore del MoMA, Alfred Barr, «è moderno il progressivo, l’originale, il difficile, piuttosto che valori sicuri».  Le opere pervenute al Bois de Boulogne rintracciano una politica di acquisizioni incentrata sulla diversità delle espressioni artistiche che compongono l’Arte Moderna dalle origini all’attualità: pittura, scultura, fotografia, film, documenti stampati, manifesti, disegno, design industriale, architettura, performance, nuovi media. Dall’elenco di un gran numero di artisti presenti abbiamo un’idea della qualità della mostra: Carl Andre, Diane Arbus, Atget, Beuys, Boccioni, Brancusi, George Brecht, Calder, Asli Çavuşoğlu, Cézanne, Ian Cheng, Dali, De Chirico, de Kooning, Duchamp, Eiseinstein, Walker Evans, Felix Gonzalez-Torres, Hopper, Jasper Johns, Frida Kahlo, Ellsworth Kelly, Kirchner, Klimt,  Barbara Kruger, Sherrie Levine, Sol LeWitt, Lichtenstein, Magritte, Malevich, Man Ray, Matisse, Mies van der Rohe, Mondrian, Bruce Nauman, Barnett Newman, Cady Noland, Georgia O’Keeffe,  Nam June Paik, Picabia, Picasso, Pollock,  Yvonne Rainer, Gerhard Richter, Rothko, Schwitters, Sergei Senkin, Cindy Sherman, Signac, Skidmore, Robert Smithson, Frank Stella, Alfred Stieglitz, Ray Tomlinson, Warhol.
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Installation view of ‘Being Modern: MoMA in Paris’ at Foundation Louis Vuitton. Courtesy of Fondation Louis Vuitton

La struttura del percorso è cronologicamente chiara. Si sviluppa su 4 livelli in tutto lo spazio di Frank Gehry. In diverse vetrine seguiamo la storia del MoMA che narra se stesso attraverso documenti del proprio archivio. Il museo newyorkese ha mandato molti dei suoi capolavori, come i notevoli tre Stati d’Animo di Boccioni, la Gare Montparnasse di De Chirico proveniente dalla collezione Rockfeller e definitivamente integrata al MoMA nel 2017, la rappresentazione caleidoscopica del critico d’arte progressista Félix Fénéon dipinta da Signac (1890). Non lontano al piano terra, si vedono le foto degli anni venti di Alfred Stieglitz (1864-1946), esposte di rado perfino negli Stati-Uniti e di Atget, noto agli americani grazie alla grande fotografa Berenice Abbott e a Man Ray. Egregia la stanza dell’espressionismo astratto, con, fra gli altri, un quadro sublime di Rothko, Ornement III di Barnett Newman e The She-Wolf di Jackson Pollock, acquistato fin dal 1944. Interessante la sottigliezza con la quale attraverso le opere degli artisti si rileva un’attenzione particolare alla tradizione contestataria,  focalizzata sulla guerra, la questione razziale, problemi sociali. Connotano l’impegno dell’arte americana  attraverso molte opere dagli anni 60 agli anni 90. In questo senso è chiara la scelta di Cady Noland, David Hammons fino al piccolo capolavoro di Gerhard Richter, Septembre 11. L’ultima stanza della mostra (gall. 11) proietta due video poeticamente affascinanti del giovane artista cinese Ian Cheng. Emissary in the squat of gods è composto grazie ad un programma di simulazione integrato con algoritmi. Genera all’infinito un racconto sull’evoluzione umana confrontata alle sue condizioni ecologiche e sociali. 
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Installation view of ‘Being Modern: MoMA in Paris’ at Foundation Louis Vuitton. Courtesy of Fondation Louis Vuitton

Alcune scelte costituiscono ulteriormente la particolarità della collezione comprensiva fin dagli anni Trenta di oggetti e fotografie, allora esclusi dal riconoscimento estetico da parte dei musei europei.  Citiamo ad esempio i manufatti industriali contemporanei agli esordi, un cuscinetto a sfere, il meccanismo di uno sciacquone, un rubinetto, etc, da vedere entrando nella prima sala, ma anche, più in là, i manifesti sovietici degli stessi anni. Notevole la creazione nel 1935 di una cineteca con le copie delle pellicole provenienti da Hollywood. Emerge così una linea culturale che rivendica un’indipendenza assunta anche  nell’attualità.  Nella stessa sala, vediamo, in mezzo a quadri e sculture, espressioni della Modernità, il primo film con attori neri, Lime Kiln Club, iniziato nel 1913, salvaguardato nel 1938 dalla conservatrice della cineteca del Museo, restaurato nel 2014. Con una riflessione approfondita ed impegnata sulla collezione il MoMA intende chiaramente partecipare al dibattito attuale e dimostrare che è così che «è grande l’America». La selezione di questa pellicola, sopravvissuta a tante peripezie non è senza ricordare l’iniziativa presa dalla maggiore istituzione museale americana e mondiale in sede. Da quando, un’anno fa, con sottile determinazione ha integrato ai capolavori che hanno marcato le Avanguardie, artisti meno noti. Nella didascalia che accompagna ogni opera si legge un pezzo critico e un paragrafo che recita: “This work is by an artist from a nation whose would be denied entry into the United States according to recent presidential executive orders. This is one of several such artworks from the Museum’s collection installed throughout the fifth floor galleries to affirm the ideals of welcome and freedom as vital to this Museum, as they are to the United States”. Secondo ordini presidenziali recenti, diventati esecutivi, questa opera è di un artista originario di un paese ai cui cittadini è stato interdetto l’ingresso negli Stati Uniti. Insieme ad altre l’opera è proprietà della collezione permanente del Museo.  Sono esposte nelle gallerie del Quinto piano per affermare gli ideali di accoglienza e di libertà fondamentali per il Museo e per gli Stati-Uniti. 

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Installation view of ‘Being Modern: MoMA in Paris’ at Foundation Louis Vuitton. Courtesy of Fondation Louis Vuitton

C’è una corrispondenza edificante fra la mostra e le osservazioni di alcuni fra i maggiori Direttori riuniti in un convegno organizzato dalla Fondazione, introdotto da  Suzanne Pagé e condotto da noti critici d’arte, Elisabeth Lebovici e Hans Ulrich Obrist. Ogni intervento rivela proposte di Museo improntate ad una vera riflessione filosofica, aperta, diversificata e complessa attorno ad una delle espressioni maggiori della nostra civiltà. Mostra quanto sia attivo il ruolo della Collezione. Essa, confrontata ad altre culture, è costantemente ripensata per decostruire la nostra storia tradizionale, partecipa alla rivisitazione obbligata della Storia e ad un’eventuale ricomposizione.  Lo spazio del museo non è immutabile, è necessariamente speculativo. Accanto alla strada maestra della narrazione dei presenti, si verificano alcune lateralità che ne costituiscono il complemento necessario (Bernard Blistène, Pompidou). Occorre nello stesso tempo tracciare un percorso riconoscibile e superare i percorsi vincolanti. Nel suo intervento Glenn D. Lowry, che dirige l’Istituzione dal 1995 e ha assistito a due estensioni più quella in corso, insiste su alcuni indicatori: il Museo guarda alle diverse narrazioni e alla costruzione del proprio momento storico che non è ancora fissato nel tempo. È il luogo delle storie plurali che si ventilano e si ricompongono. La modernità è una nozione utopica sempre presente. Prima di concludere con questo interrogativo inedito: “Quanto è necessario per un Museo continuare ad avere una collezione?” Lowry afferma chiaramente che il MoMA  è un luogo politico con il compito di essere aperto e generoso: le Istituzioni devono saper esprimere un proprio apprezzamento in confronto ad un’amministrazione americana chiusa. In altre parole il Museo partecipa attivamente alla definizione della Storia. È un luogo sociale nel quale si confrontano diversi tipi di fruitori, un laboratorio del pensiero. A proposito di pubblico, il Direttore dell’Hermitage di San Pietroburgo sottopone alla nostra attenzione questa considerazione: oltre al governo possono essere gli stessi frequentatori a fare escludere un artista, una linea di ricerca artistica. Succede anche questo. Basta ricordare lo scandalo provocato nel 2015 dall’installazione temporanea, prevista solo per pochi giorni, della scultura di Paul McCarthy, in Place Vendôme.  O l’irritazione espressa, perfino da qualche critico d’arte, nei confronti della mostra di arte contemporanea in un’ala del Foro Palatino,  visitabile per l’occasione, dopo decine di anni di chiusura.
Michèle Humbert

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