07 marzo 2018

New York Art Week/1. La Triennale del New Museum, Canzoni per un sabotaggio rassicurante

 

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Iniziamo il nostro tour newyorchese, che sancisce l’inizio della stagione primaverile con l’Armory Show, partendo da un’istituzione che ha appena compiuto 40 anni: il New Museum. La quarta Triennale, intitolata “Songs for Sabotage” e a cura di Gary Carrion-Murayari, Alex Gartenfeld, chief curator all’Institute of Contemporary Art di Miami, e con l’assistenza di Francesca Altamura, trova la sua chiave di volta in una iscrizione dell’artista indiano Anupam Roy, rappresentato dalla Vadehra Art Gallery di Delhi: «The crisis consist precisely in the fact that the old is dying and the new cannot be born; in this interregnum a great variety of morbid syntoms appear». 
A tutti gli effetti, la sua è la dimostrazione evidente di questi morbidi sintomi che si attardano alla nascita, ma che solleticano ugualmente la percezione e, quasi, sono “rassicuranti” nell’idea di crisi. Ci troviamo infatti immersi in una sorta di caverna dove la pittura e la composizione di “tableaux” con una serie di piccoli oggetti assemblati la fanno da padrone. Piacevole viene da dire, quasi rassicurante. Ecco, tra chi sceglie di omaggiare le vittime operaie della rivolta o di raccontare cambiamenti climatici, chi prende ispirazione dalle proprie storie personali di malattia o della condizione di immigrato di seconda generazione, chi dal background culturale che contribuisce a una ridefinizione anche dell’estetica, chi scardina sottilmente luoghi comuni legati al genere, c’è da sentirsi protetti: pittura, installazioni, un paio di video e un bell’allestimento che, alla fine del giro, ci fa sentire soddisfatti. Sarà questa la rivoluzione dei giovani? Sarà che si può cambiare il mondo anche attraverso la realizzazione di tappeti o piccole sculture? O sarà che forse abbiamo bisogno – e i musei anche – di raccontare tragedie con mansuetudine? 
Gli artisti, tutti nati dopo il 1980 e di cui la maggior parte ha 29-30 anni ora, vengono dagli Stati Uniti, qualcuno dall’Oriente, altri dall’Africa e dalla Russia, con un paio di eccezioni europee, e compiono questo delicato sabotaggio con una serie di ganci per cucitrice che coprono fotografie montate su grandi pannelli di legno e lasciano scoperti particolari con un superbo effetto visivo metallico (Wilmer Wilson IV), oppure raccolgono alghe a Key West e, mischiandole ai conservanti, le dispongono – materiale identificativo del disfacimento della natura – sui muri della galleria al terzo piano, ibridati con tubi metallici (Violet Dennison) o, ancora, mettono un gruppo di ufficiali navali a bordo delle montagne russe più alte e vorticose del pianeta, sfidandoli a mantenere intatto self control e mascolinità, qualità richieste dall’esercito e tradite dalle foto ricordo in leggerissime smorfie di paura o eccitazione (Song Ta). Tutt’intorno, anche se si parla di razzismo, di conflitti, di lotte individuali e collettive, di colonialismo cinese in Grecia, del “sacco” delle Filippine e della crisi della modernità troviamo bella pittura. D’altronde non è nella poetica che risiede la politica dell’arte? 
Probabilmente sì, anche se forse, stavolta, dai giovani ci aspettavamo un po’ più di rabbia. Aspettando che il vecchio muoia definitivamente e nonostante le gallerie di riferimento. 
Catalogo edito da Phaidon.

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