09 marzo 2018

New York Art Week/4. L’impegno del Whitney e la splendida “Survey” di Zoe Leonard

 

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Il Whiney di Meatpacking, nella nuova sede di Renzo Piano, dalla sua apertura ormai due anni fa – con tanto di Michelle Obama a fare da madrina, ricordate? –si conferma sempre di più come una istituzione attenta alla promozione di quell’arte delle differenze, politica e sociale, stando sempre ai canoni degli USA, Paese politically correct per eccellenza, in apparenza. Così, al sesto piano, la collezione permanente è stata organizzata secondo questo concetto: “An Incomplete History of Protest: selection from the Whitney’s Collection, 1940-2017”. 
In scena, come già avevamo avuto modo di vedere nella splendida “America is hard to see”, la mostra inaugurale, ecco che tornano alle pareti e non solo, temi come l’occultamento della diffusione dell’AIDS, nella seconda metà degli anni ’80, le questioni razziali che solcano i decenni e arrivano a oggi, con Edward Kienholz sulla militarizzazione, una serie di poster bellissimi contro i guerrafondai e i disastri del Vietnam, le Guerrilla Girls, Donald Moffett contro il vecchio Ronald Reagan…ma ora sarebbe il caso di aggiungere qualcosa sui Signori Bush e Trump, per esempio. Attendiamo fiduciosi per le prossime annate, sperando che qualcuno si incarichi di mettere nero su bianco il problema e la politica. 
In realtà, però, la nostra attenzione è tutta per la splendida mostra “Survey” di Zoe Leonard: trent’anni di “osservazione”, come recita il titolo, concentrati magnificamente in un percorso lineare, minimale, con lo speciale tocco dell’artista che – come scritto nel grande catalogo realizzato in collaborazione con il MOCA di Los Angeles – sembra raccontare l’intimità con l’uso di elementi prettamente esterni, pubblici. Anche in questo caso, i temi sono forti: genere e sessualità, perdita, migrazione, finzione. Accade nella splendida storia dell’attrice nera (fake) Fae Richards, 1993-96, dove ogni fotografia è stata realizzata ricostruendo e simulando tecniche e trattamenti dei decenni del ‘900, che vanno dagli anni ’30 ai ’70 per il film di Cheryl Dunye, The Watermelon Woman (1996). Da non perdere anche la sequenza di valigie che apre la mostra, lunga come gli anni Leonard (classe 1961) che ogni 12 mesi aggiunge un pezzo a questa installazione che ricorda partenze, arrivi e, soprattutto, la sofferenza di dover mettere la propria vita in pochi centimetri cubi, incessantemente. Altra splendida opera è Strange Fruit. Qui l’artista cuce con ago e filo, zip, bottoni e punti di sutura, bucce di banana, arance, limoni, melograni. Il tutto, poi, viene disposto a terra, raccontando e citando l’omonima canzone di Billie Holiday del 1939, che raccontava del linciaggio delle persone di colore. Ma Leonard, anche in questo caso, racconta una doppia storia: quella di oltre 60mila morti per AIDS nella sola città di New York, dal 1997 a oggi. Non una cifra da poco, considerando la rimozione da parte della politica durante gli anni dell’epidemia (il lavoro è datato 1992-93) e l’attuale silenzio intorno alla faccenda, nonostante le terapie e la cultura della prevenzione. Infine, una lettera toccante. Una dichiarazione vera e propria, uno statement: I want a President, anch’essa redatta nel 1992 e mai pubblicata. Recita più o meno così: ‹‹Voglio un Presidente malato di AIDS, che viva in un posto pieno di gas inquinanti, che non abbia l’assicurazione sanitaria, che abbia perso un amore a causa di una malattia, che non abbia l’aria condizionata e che abbia dovuto abortire a 16 anni…›› e così via. Sembra scritta oggi e, invece, risale a 25 anni fa. Ma ancora tutti stiamo aspettando un Presidente così. 
God bless the Whitney!

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