14 marzo 2018

Il ritrovamento di un dipinto trafugato nel 1994 riapre il discorso sul paesaggismo romano

 

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In una conferenza stampa che si è svolta presso Palazzo Barberini lo scorso 1 marzo, è stato presentato un nuovo significativo successo ottenuto dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: si tratta del ritrovamento di un dipinto rubato nel 1994, una pregevole opera del Settecento romano intitolato Capriccio Architettonico con astanti, la cui paternità è contesa tra due dei maggiori vedutisti dell’epoca, il piacentino Giovan Paolo Pannini e il romano Andrea Locatelli. Il quadro sarà restituito al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e sarà riassegnato alle Gallerie Nazionali di Arte Antica, alle quali apparteneva sin dal 1895 quando i Torlonia lo donarono alla famiglia Barberini. 
Il recupero è avvenuto grazia alla costante attività di monitoraggio dei Carabinieri sul mercato dell’arte che ha permesso di rintracciare il dipinto in un’asta internazionale a Londra. Il quadro, rubato quando era in deposito presso l’Archivio Siviero, era stato consegnato da un antiquario alla filiale romana della casa d’aste con l’obiettivo di venderlo all’estero. 
È una notizia positiva per due motivi: la prima è che torna a casa un tassello dell’intricato puzzle che è la pittura romana del Settecento; il significato maggiore però sta nel fatto che l’attenzione sugli illeciti legati ai beni culturali è altissima e l’azione di contrasto risulta efficace. Merito del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, ufficio di diretta collaborazione del Mibact, che deve essere considerato a pieno titolo una delle vere eccellenze italiane: nato nel 1969, quindi un anno prima che la Convenzione UNESCO di Parigi invitasse gli stati membri a dotarsi di un corpo di polizia atto alla tutela del patrimonio artistico, ha conseguito negli anni risultati straordinari per la salvaguardia delle nostre opere d’arte. In una fase come quella attuale, caratterizzata da un acceso dibattito sulle modalità di valorizzazione del patrimonio artistico, è sempre utile ribadire la centralità della tutela e della conservazione. 
Da un punto di vista storico artistico quest’opera va a collocarsi in uno dei filoni più fecondi e alla moda nel Settecento, soprattutto quello romano. Si tratta di una veduta di paesaggio dominato da rovine classiche con in secondo piano alcune piccole figure: un’opera che rende bene il sentimento verso l’antichità che caratterizzava la società della prima metà del XVIII secolo, puramente estetico e vagamente nostalgico per una condizione umana ritenuta ideale ma non più raggiungibile. Non era ancora il tempo dell’approccio rigorosamente intellettuale che caratterizza invece l’humus culturale verso la fine del secolo. 
L’incertezza sull’autore può in realtà essere risolta a favore di Locatelli: sia perché il dipinto è già inserito nel suo catalogo da Andrea Busiri Vici nella monografia del 1976, sia per le evidenti analogie stilistiche con altre opere della stessa mano. Un maniera pregevole ma che non raggiunge la qualità dei capolavori di Pannini, tra i più grandi artisti del suo tempo: con la sua minuziosa indagine analitica della realtà, soprattutto quella dei monumenti romani, è stato uno dei pittori più ricercati da parte dei committenti. I due hanno anche avuto una fortuna critica molto dissimile, ed è curioso notare, per esempio, la disparità di giudizio sui due artisti da parte di un grande storico dell’arte del Novecento come Giulio Carlo Argan. Mentre Pannini rientra nel novero dei più grandi, Locatelli viene bocciato brutalmente: «Lo scenario del paesaggio classico non interessa più: basterebbe a dimostrarlo la noia opprimente delle opere di Andrea Locatelli, il più famoso paesaggista romano del primo Settecento». 
Ma si sa, anche i più grandi studiosi possono sbagliare: con la restituzione di quest’opera a Palazzo Barberini, adesso ognuno potrà andare ad ammirarlo dal vivo facendosi la propria idea, che è sempre la cosa preferibile nella storia dell’arte e non solo. (Luca Liberatoscioli)

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